Ghost story in assenza di vita, scritta sul velo ghiacciato che ricopre la quotidianità del Québec: Répertoires des villes disparues (in Concorso alla Berlinale 69) è sostanzialmente la narrazione sociale di un paese che “ha paura del presente, di perdere il senso di sicurezza che da sempre offre alla sua gente”, come dice Denis Côté per spiegare l’origine di questo suo horror intimista che incarna nella quotidianità l’ossessione d’assedio, il senso di accerchiamento portato dagli sconosciuti. Sostanzialmente una storia di revenants, di morti che si rifanno vivi tra i viventi, bussano alle loro vite quotidiane come spettri che li osservano nella loro inane esistenza. Praticamente uno schema di lettura della condizione sociale attuale, non solo canadese ovviamente, già praticato da Robin Campillo (Les revenants del 2004, da cui poi il serial che tutti hanno visto) ma ancor prima da Jean-Paul Civeyrac in Fantômes… Insomma Denis Côté riprende un canovaccio già scritto e lo applica a questo horror québécois, ambientato in una immaginaria cittadina persa nella neve, 215 abitanti stretti attorno a un senso di appartenenza che si incarna nella figura di una inquietante sindaca. Ai margini del villaggio una casa abbandonata, teatro dello sterminio di una famiglia da parte di un padre poi suicida. Nel cuore delle abitazioni scorre placida una vita qualunque, su cui piomba come un perturbante il dolore per la morte di uno di loro, il giovane Simon, schiantatosi con l’auto alle porte del paese innevato. Côté lavora come suo solito in introflessione, contenendo ogni picco in una sorta di emotività diffusa: a differenza dei suoi altri film narrativi (Vic+Flo ont vu un ours, Elle veut le chaos, Boris sans Béatrice), qui manca la spinta di personaggi centrali forti e iconici. Come dice bene il titolo mastersiano, Répertoires des villes disparues lavora sul senso della comunità partendo dal senso della perdita, insistendo su una coralità che si attaglia allo spazio vissuto, alle geometrie della convivenza, alla quadratura delle coordinate, in questo aderendo piuttosto alla sua cifra registica da documentarista (Carcasses, Bestiaire, Que ta joie demeure), forse la parte migliore del suo cinema.
Fatto sta che in questa comunità di 215 anime, la morte del giovane Simon porta turbamento, ma soprattutto rivela la spettrale presenza ai margini della vita di figure che vengono dal passato, morti che dal folto dei boschi si palesano ai vivi: corpi silenziosi che non fanno nulla, non agiscono né interagiscono, solo osservano e stanno lì, presenti, occupando porzioni di vita che non dovrebbero avere. Lo stesso Simon si rifà vivo, e alla fine le stesse autorità spiegano che è un fenomeno diffuso in tutto il paese, nei piccoli centri quasi disabitati… Il film manovra questo esile plot con prevalente senso contemplativo, avvitandosi sull’inazione dei viventi e sull’evocazione dei morti senza dare particolare rilievo alle figure, alle psicologie, ai drammi. Più che altro un catalogo di vite sospese sulla solitudine, sull’isolamento della comunità, salvo poi aggiungere elementi narrativi negli ultimi quindici minuti, quando il film sta già finendo. Strana scelta antinarrativa di Côté, che preferisce disidratare il portato drammaturgico della sua storia, ancorandolo piuttosto allo svuotamento di vita che preferisce mettere in scena in contrapposizione all’incombente presenza della morte. La metafora sulla società canadese è sin troppo palese e il film purtroppo spreca gran parte della materia, peraltro non propriamente inedita, che ha a disposizione. Resta forte e precisa la suggestione complessiva, il senso di oppressione che tutto quel vuoto, quel silenzio, quell’assenza provocano, l’angoscia dei viventi in presenza dell’immagine speculare offerta dai revenants.