Su Prime Video The Tender Bar di George Clooney per fare i conti con ciò che si perde

Si può anche realizzare un film evitando borie ideologiche, mantenendo un profilo basso, accontentandosi del piacere del racconto, puntando sugli affetti anziché sugli effetti come fa Clooney in The Tender Bar. Al suo ottavo film da regista, adatta l’omonimo romanzo autobiografico di J.R. Moehringer (giornalista e scrittore newyorkese, celebre pure per essere coautore, in pratica, del feroce Open con Agassi) pubblicato nel 2005, in Italia edito da Piemme e distribuito con il titolo Il bar delle grandi speranze, e segue la strada non priva di insidie e ostacoli, della simpatia e della tenerezza. Terreno scivoloso. Ma il passo scelto per questo coming of age avvolto dalle malinconiche atmosfere della Long Island di inizio anni 70 è sicuro, palesemente affettuoso, riflesso delle incertezze del protagonista J.R. (da piccolo Daniel Ranieri), del suo sguardo nostalgico e irrisolto (da giovane Tye Sheridan) ma anche portatore di un’originalità fatta di premure e opportunità, sogni e fallimenti con i quali fare i conti. D’altra parte crescere significa, anche e sempre, fare i conti con ciò che si perde. 

 

 

The Tender Bar più che riflettere sulla speranza di farcela in un futuro non ben definito (come lascia a intendere il meno efficace titolo italiano del libro) pare concentrarsi sulla riscoperta di sentimento, una vicinanza, un calore umano visto come antidoto al dramma di vivere il presente in tutta la sua urticante e fastidiosa imminenza. Quindi è un film sullo stare più che sull’andare, sul tornare più che sull’arrivare, sul cercare più che sul trovare. E questa sobrietà così manifesta, questa pacatezza così ostentata, questo procedere così dichiaratamente finto, scelta che certamente ad alcuni potrà sembrare fuori tempo massimo, magari zuppa di retorica, non solo stabilisce le condizioni dell’intrattenimento giocando la partita a carte scoperte, ma pure svela l’intenzione di riordinare e rimettere al proprio posto i luoghi e i tipi che hanno caratterizzato la narrazione di una formazione. Il film funziona così: rivela e ripete i suoi motivi. Ritorna sui suoi passi. È come se Clooney volesse catturare un’attesa e renderla concreta attraverso una percezione personale (di J.R.): il tempo scorre ma a ben vedere non passa mai. Tutto è fisso, richiamato nella memoria.

 

 

Così, quella condotta da J.R. diventa una lotta contro il tempo per conquistare la propria identità come tiene a specificare quando si ostina a firmare il proprio nome senza il doppio punto per rivendicare la propria autonomia dal padre, speaker radiofonico alcolizzato e fallito che lo ha abbandonato appena nato. Ma è anche una ricerca interiore, specchio dell’incapacità di vedere oltre, di riuscire a riconoscere che dentro di sé c’è altro oltre all’amore di mamma (Lily Rabe), all’affidabilità della casa di nonno (Christopher Lloyd) e soprattutto, alla presenza confortante di zio Charlie (Ben Affleck), barista trasandato del The Dickens, mentore dal sorriso triste che ha scelto di servire al bancone del bar, dietro, di raccontare le storie anziché viverle, davanti. La vicenda di J.R. andrebbe guardata come si guarda un rifugio, raggiunto dopo ore di cammino: quello che per qualche ora rappresenta un riferimento poi diventerà un ricordo. Nella seconda parte il film smarrisce il proprio smalto paradossalmente quando enfatizza gli elementi farseschi tenuti a bada fino a quel momento con leggerezza; se è vero che a farne le spese è soprattutto il finale quando J.R. affronta la sua personale resa dei conti sia con la propria storia di figlio, sia con la propria condizione proletaria, resta intatta l’idea di fondo cullata da Clooney, già scandita nel precedente The Midnight Sky: la messa in scena di un ricordo sulla scorta di un sentimento come la tenerezza.