Prigionieri della terra: El Hoyo di Galder Gaztelu-Urrutia su Netflix

La dimensione è quella del film-performance, basato su un assunto tanto semplice quanto potente: ci sono due persone rinchiuse in un’avveniristica prigione a cerchi, una struttura che discende sempre più nella terra. Il cibo invece è trasportato a intervalli regolari da una piattaforma che procede dall’alto verso il basso. Naturalmente chi sta più in alto ha maggiore possibilità di sfamarsi rispetto ai prigionieri in basso. Ma c’è un’incognita: ogni mese si cambia di livello, senza sapere dove si finirà la prossima volta. La dimensione geometrica, molto chiara, favorisce naturalmente la metafora sociale della divisione in classi o, meglio ancora, della guerra tra poveri, dove chi sta più in alto gestisce il minimo potere sui compagni di sventura collocati più sotto, togliendo loro il cibo o contaminandolo con sputi e urina (perché “così fanno anche quelli di sopra”). L’elemento di rottura è dato dal protagonista Goreng, entrato nel meccanismo per ottenere un beneficio in termini di promozione sociale, ma che ugualmente è idealista e preoccupato di non nuocere eccessivamente agli altri prigionieri, avvisandoli o aiutandoli laddove possibile. La dualità dell’assunto è quindi incarnata dalla piattaforma, a suo modo “democratica” per come offre a tutti lo stesso tempo di permanenza nella cella, ma fortemente classista per come accontenta i primi più degli ultimi. Lo stesso dualismo si ritrova anche nel travaglio di Goreng, opposto – almeno nella parte iniziale del viaggio – a un compagno cinico e perfettamente addentro alle dinamiche di sopravvivenza estrema del luogo (ovviamente a scapito altrui) e continuamente alla ricerca di uno scopo per non smarrire la propria umanità. Lo troverà in una prigioniera che attraversa i livelli sulla piattaforma in cerca del figlio scomparso: forse solo un’illusione, che però è sufficiente a Goreng per tenere alta la guardia e cercare di comprendere di più le regole del posto.

 

 

Quello delle regole è in effetti il punto dirimente di simili operazioni cinematografiche: a volte soffocano lo svolgimento, in questo caso sono enunciate immediatamente e spesso disattese in quanto unicamente strumentali. All’esordiente Galder Gaztelu-Urrutia interessa infatti il percorso più che l’assunto, la gestione emotiva cangiante all’interno di spazi immobili e asettici in cui trionfano le geometrie e il grigio del cemento. Per questo l’approccio è orientato a una “dimensione estetica e un’agile naturalezza” nel lavoro con gli attori e nell’uso espressivo degli spazi, che nei giochi di ombre esteriorizzano i dubbi di Goreng. In effetti l’efficacia maggiore del film sta nel modo in cui riesce a mantenere costante la tensione, oscillando tra la ristrettezza dei luoghi e l’ampliamento continuo dei sentimenti. Sbalzato tra realtà e visioni in stato di semi incoscienza (ogni volta che si cambia di livello si viene drogati per non percepire il trasporto), Goreng è letteralmente in balia di una dimensione ideale che deve fare i conti con una realtà dove la posta in gioco è estremamente fisica. Il corpo è spesso ferito dalle lotte con gli altri detenuti o dal procedere implacabile della piattaforma; il cibo trabocca all’inizio del viaggio, ma poi si impasta in rimasugli sempre più scomposti cui pure la fame spinge ad accedere con voracità. Si realizza anche in questo modo la sintesi dei grandi conflitti del nostro tempo, scissi fra l’ingiustizia ideale e le necessità più immediate della sussistenza. Gaztelu-Urrutia riesce perciò a portare avanti la sua performance con la complessità di chi sa trarre il meglio dall’assunto più semplice e il viaggio coinvolge anche al di là del semplice procedere degli eventi: riesce infatti a far stabilire una connessione emotiva con l’odissea di Goreng, ugualmente a metà strada fra realtà e sogno, in una sorta di autentico e bizzarro delirio lisergico. La visione di questo mondo a gironi resta così un’efficace rappresentazione plastica della società contemporanea, dei suoi conflitti e delle sue pulsioni più basilari, all’interno di uno schema assolutamente implacabile. Il film è passato in concorso al 37mo Torino Film Festival dopo l’ottima accoglienza a Toronto e il ricco ensemble di premi raccolti a Sitges.