Sono gli asciutti scenari dei luoghi di confine del Friuli a fare da sfondo al nuovo film del regista lombardo. L’evocativo titolo, La memoria del mondo (presentato nella sezione Nuovimondi del 40° Torino Film Festival), serve anche a introdurci in un tema che istintivamente richiama alla mente di ciascuno i luoghi amati, non per forza i più frequentati, ma quelli nei quali sembra depositarsi la nostra personale e migliore memoria. È quindi del tutto comprensibile che il film di Locatelli esplori con progressivo interesse un territorio nel quale il suo protagonista, l’artista Ernst Bollinger, sta allestendo la sua mostra dallo stesso titolo del film. Ma il progetto è interrotto dalla accidentale scomparsa di Elena, sua moglie. Adrian, il suo stretto collaboratore, narratore fuori campo, lo aiuterà in questa lunga e affannosa ricerca che servirà a consolidare i legami e meglio conoscere i luoghi e vedere in quelli il riflesso del proprio ruolo di umani.
C’è una staticità di sottofondo in questa esile vicenda che si manifesta come un lungo e prezioso vagabondaggio tra le acque salmastre della laguna e lo sfondo dei monti che segnano i confini visivi. D’altra parte le parole chiave che Adrian più volte pronuncia e scrive sui suoi appunti sono wanderer e randerung cioè vagabondaggio e confine, due concetti che non limitano l’atto della conoscenza – di questo si tratta – ma piuttosto ne ampliano il significato, amplificano il senso di piacevole smarrimento nei labirinti dei luoghi (s)conosciuti. È questo che Locatelli ricerca, anzi in realtà ricerca due cose e lo fa attraverso il suo film che funziona da dispositivo di conoscenza, strumento di apprendimento, luogo, a sua volta, di riflessione. Le due cose sono opposte e combacianti. Si tratta dello smarrimento e del radicamento, temi, solo apparentemente opposti, ma talmente vicini da completarsi, laddove non esiste il secondo se non vi è stato il primo e ci può essere il primo, come nuovo inizio del ciclo, solo dopo che il processo di completamento del secondo è avvenuto.
La storia del film è esile, perfino troppo, il racconto è impreziosito dagli scenari naturali, le prove d’attore non sono tutte convincenti, ma La memoria del mondo, pur con questi vuoti che impone, con questa intermittenza che provoca nello spettatore, con quanto di sbagliato esiste in una scrittura a volte troppo di testa, quando sarebbe stato bello lasciare andare un poco il sentimento, è un film che cattura l’attenzione e che sa ritagliarsi un suo spazio in quella memoria del mondo così evocata e così difficile da catturare. A metà, quindi, tra saggio poetico, alla ricerca di una nuova forma dell’esistenza in quegli spazi nei quali i confini aprono a nuove prospettive, e racconto formativo teso verso la conoscenza. Su questi due pilastri, dunque, si regge il film e nella scrittura drammaturgica corrispondono il primo alla sparizione di Elena – la cui ragione, giustamente, non viene spiegata, né tanto meno riveste interesse il dato cronachistico – e il secondo alla sua ricerca, che diventa momento di esplorazione, di avventuroso studio e di perdita di certezze alla ricerca delle nuove.
La memoria del mondo è quella che ci salverà dall’oblio, che si perpetua quasi residuando nei luoghi che diventano per questo sacri e per lo stesso motivo restano sconosciuti nel loro profondo. Un tema sempre affascinante per artisti e antropologi, innato nelle popolazioni di ogni posto, piccolo o grande che sia. Locatelli affronta questi temi, non frequentissimi nella cinematografia fiction, ma esaminati con molta attenzione in quel ricco catalogo dell’altra cinematografia che guarda all’essenza dell’esistenza. Un nome per tutti Herzog, che forse ha sempre lavorato all’interno di queste coordinate così spaziose e che il suo cinema ha reso ancora più vaste. Per il regista lombardo è un atto di coraggio, e con la necessaria sfrontata umiltà realizza un piccolo lavoro che ha alle spalle una grande memoria. Per questa ragione, con ogni riserva espressa, La memoria del mondo resta un film da amare.