TFF41- Le Ravissement di Iris Kaltenbäck e la debolezza del peccato

Tre colori, tre storie di solitudine straziante, una centrale, quella della vita doppia della protagonista Lydia, ostetrica esemplare, e due laterali, quella della sua migliore amica Salomé, che partorisce la piccola Esmée, e quella di Milos, «un autista di autobus, immigrato di prima generazione proveniente dall’ex Jugoslavia, la cui vita segue il ritmo del turno di notte, senza alcun progetto particolare per il futuro finché non incontra Lydia». La lezione di Krzysztof Kieślowski è ferma e visibile nel film Le Ravissement, primo lungometraggio della giovane regista francese Iris Kaltenbäck, presentato alla Semaine de la critique di Cannes e in concorso alla 41a edizione del Torino Film Festival. Una lezione di essenzialità che ricorda il Decalogo, con pochissima luce artificiale nelle inquadrature, dialoghi ridotti al minimo, un montaggio pressoché invisibile e una pietas nel mostrare le debolezze umane che silenziosamente avvolge e travolge lo spettatore. Una lezione di profondità che ricorda La doppia vita di Veronica nel ritrarre un personaggio femminile inclassificabile, fragilissimo e fortissimo insieme, che si aggira per le strade livide di Parigi cercando un senso per la sua esistenza involontariamente solitaria, mentre gli altri la allontanano: Salomé che sprofonda nella depressione post partum e Milos che le dice di non volersi legare sentimentalmente.

 

 

Il peccato di Lydia, indagato da Kaltenbäck con uno sguardo laicissimo affine a quello con cui Kieślowski mostra le infrazioni ai comandamenti dei suoi personaggi, è la menzogna, quella che ci si racconta e si racconta agli altri per sfuggire alla propria solitudine, per non vederla o per riempirne il vuoto di storie consolanti. Il peccato per Kaltenbäck/Kieślowski nasce sempre e solo da una debolezza più che da una regola non osservata ed è consustanziale all’indole umana: non la si può eradicare, a volte ci si può costruire sopra, a volte non ha senso combatterla, ma ha sempre senso sforzarsi di capirla. E per capirla occorre osservarla e tentare di raccontarla. È quello che fa la voce narrante di Milos, nel tentativo di risolvere l’enigma delle menzogne di Lydia, riuscendo a trasformare l’originaria chiusura, dovuta alla sua assuefazione difensiva alla solitudine, in  apertura, il distacco egoistico in vicinanza affettuosa… ma la voce non risolve il mistero della debolezza, non ci prova neanche, si limita a mettere insieme i pezzi di un puzzle inaudito e a fare, a farsi, a farci molte domande.