Acquistato per 10 milioni di dollari da Amazon, prodotto da Judd Apatow, diretto da Michael Showalter (attore, produttore, regista e scrittore sconosciuto in Italia, ma molto attivo sia in ambito cinematografico che televisivo) e interpretato da Kumail Nanjiani nel ruolo di se stesso, in una storia che ha contribuito a sceneggiare per il grande schermo, The Big Sick si porge allo spettatore con un biglietto da visita appariscente, che non tradisce le aspettative. Ambientato a Chicago, tra comedy club e la sala d’aspetto di un ospedale, il film ha la freschezza irriverente delle commedie perfettamente sostenute dal ritmo. Preciso come il meccanismo di un orologio, infatti, Showalter mette insieme tutti gli elementi di una storia complessa, che avrebbero potuto saturare il racconto, ma che, al contrario, lo rinnovano via via e lo arricchiscono di significati ben più ampi, che raccontano la società contemporanea e gli stratagemmi necessari per stare nel mondo.
Kumail è un giovane pakistano arrivato con la famiglia negli Stati Uniti a quattordici anni. Il suo sogno è fare l’attore comico e per questo si esibisce la sera come stand-up comedian in un locale del centro. Per vivere fa l’autista Uber e spesso cena con padre, madre, fratello e cognata, tutti fedeli alle loro origini, dai cibi agli abiti, ai matrimoni combinati. Tutti tranne Kumail, che accetta malvolentieri gli incontri con le ragazze pakistane che la madre invita a ogni cena – perfette come ipotetiche mogli – e poi accumula le loro foto in una scatola di sigari. Lui si è già innamorato di una ragazza bianca, Emily (interpetata da Zoe Kazan, nipote di Elia) e sa che sarà rinnegato per questo sgarbo alla atavica tradizione vecchia di 1400 anni. Giocato su personaggi eccentrici e tutt’altro che stereotipati, dialoghi brillanti e veloci (proprio come le battute che i comici infilano una dopo l’altra sui palchi accecanti), e su una vicenda autobiografica talmente insolita da rivelarsi sempre autentica, The Big Sick ha il pregio di uno sguardo semplice e spoglio, come osservare la cronaca di un amore senza interventi di stile, per poter manipolare i cliché sul pregudizio di razza e cultura e disinnescarli davanti ai nostri occhi. Convenzioni e preconcetti contro convenzioni e preconcetti, messi sotto la lente d’ingrandimento e interrogati per il loro reale significato. E quando i genitori di Emily vanno ad assistere a uno spettacolo di Kumail si concretizza lo stratagemma dialettico messo efficacemente in pratica da Showalter, perché lo spettacolo travalica i confini del palco e si sposta tra il pubblico, così come la provocazione delle battute, che da invenzione di un copione si fa flagrante e il conflitto razziale fino ad ora negato o mentito, acquista corpo. Fuori e dentro le battute di Kumail, nelle parole intolleranti di uno spettatore e nella rabbia della madre di Emily (una poderosa Holly Hunter) si scatena tutta quella tempesta che abbiamo solo sentito serpeggiare fino ad ora. Il risultato è intelligente e pungente, e in pochi minuti anche il concetto di politically correct sfuma e si rivela più che mai anacronistico, anche se l’11 Settembre pesa sulle teste di tutti e devia ancora i destini di alcuni.