L’archetipo della distanza, dello spazio che separa corpi e volontà, storie e identità: Ti guardo (Desde allà, “da lontano”, recita il titolo originale) lo elabora con una intensità che in fin dei conti è molto meno schematica di quel che può sembrare. C’è Armando che è un uomo interrotto, un odontotecnico triste e solitario, scavato nell’indifferenza sotto la quale ha sepolto un traumatico passato scritto dalle inconfessabili colpe di un laido padre dalla faccia pulita dei potenti. Dal lato opposto della sua vita raggelata c’è Elder, ragazzo di quartiere, concentrato di tenerezza sepolta sotto la rabbia fisica e la violenza dei sentimenti. Elder è uno dei tanti ragazzi che Armando avvicina e porta a casa, offrendo loro denaro, ma non per ottenere sesso: gli basta procurarsi piacere guardandoli a distanza, mentre si denudano sotto i suoi occhi. Non è però un gioco di sguardi, quello che intesse la passione negata, non è la ricerca di una carezzevole impotenza ad animare la tensione, né tanto meno il gioco è retto da una pur vaga e istintiva sensualità: se infatti lo schema allestito dall’esordiente Lorenzo Vigas annuncia un melodramma gay, in realtà lo sviluppo dispone poi le regole dell’attrazione sulla scia di un amore immancabilmente più freddo della morte, dove lo scarto tra rispecchiamento e potere si gioca tutto sulla scala delle dinamiche sociali, del debole che soggiace alla volontà del forte. Dunque il giovane Elder, che prima colpisce e deruba Armando, si lascia sedurre dalle attenzioni di quel padre mancato da cui è stato adescato e ne viola la regola della distanza: traduce così il pugno in carezza e in una sorta di amore, invertendo inconsciamente la pulsione dell’uomo, forzandone la separatezza e innescando nell’uomo un principio di rispecchiamento rispetto alle improprie attenzioni subite nell’infanzia dal padre. Sicché il teorema della vendetta, con il suo fatale corollario del tradimento, ricade come una ingiusta condanna sul più debole e il film si spinge senza dolore, impassibile come il suo protagonista, verso l’immancabile finale.
Ne consegue un film d’astrazione realistica che percorre l’anestesia delle emozioni sino in fondo, come fosse la declinazione alternativa del lirismo imploso nell’indifferenza decantato nel cinema di Pablo Larrain (cui ovviamente rimanda l’aver affidato ad Alfredo Castro il ruolo di Alfredo). Ti guardo ha una forza endemica che proviene dalla raffigurazione di un quadro sociale nutrito da una rabbia radicata nella storia del paese: Caracas, il Venezuela, sono lo specchio in cui si riflette l’ordito psicologico di Alfredo, e Lorenzo Vigas insiste, in questa sua opera prima, su quella inconciliabile e impotente rabbia che cova nelle viscere delle generazioni e si tramanda di padre in figlio. La traccia, del resto, discende dal suo bel cortometraggio d’esordio, Los Elefantes Nunca Olvidan, visto alla Semaine della Critiques di Cannes 2004, esercizio di equilibrio tra rabbia e purezza, del quale Ti guardo è in certa misura l’improprio sequel. In questa sua opera prima, scritta e prodotta assieme a Guillermo Arriaga e premiata a Venezia 71 col Leone d’Oro, Lorenzo Vigas raggela la metafora del potere in un film che risponde a uno stile un po’ preconcetto, senza tuttavia mancare di una fondamentale sincerità. Il dispositivo lavora sulle dinamiche della distanza, sui fondali fuori fuoco che concentrano l’attenzione sui primi piani e negano profondità di campo a un’opera (pur sempre prima) che si concentra un po’ meccanicamente sulla sostanza dei due protagonisti.