Se si deve parlare del film della lettone Laila Pakalnina, non si può e non si deve che parlare di stile, di percezione, di relazione tra l’occhio che guarda e la porzione di realtà che può vedere e quanto questo sguardo possa essere amplificato dalla lente del cinema, non si può che parlare di tempo e di posizione della macchina da presa. Gala punkti, nel Concorso documentari dell’edizione n. 36 del Festival di Trieste, può essere al tempo stesso considerato un esercizio di stile, cioè la sperimentazione dello sguardo curioso di un osservatore quasi indifferente, non animato, cioè, da un preciso scopo se non quello del guardare come finalità e strumento della pura osservazione, oppure come sperimentazione di una relazione che inevitabilmente esiste tra soggetto che guarda e soggetto guardato che presuppone l’indifferenza di quest’ultimo, questa volta intesa come mancato accorgersi dello sguardo altrui puntato addosso. La regista con la sua troupe osserva da lontano e in più occasioni l’andare e venire di persone che sin dal primo mattino aspettano i mezzi del trasporto urbano. Salgono e scendono dagli autobus, perduti nei loro pensieri, fermi in attesa del mezzo. Un’osservazione pura, senza un intervento, senza il desiderio di un’indagine che non sia quella di una relazione mediata dal cinema, dunque un film senza dialoghi, senza parole, fatto di immagini in un bianco e nero modulato nel suo sgranamento dal tipo di focale utilizzata.
Attiva nel cinema sin dalla metà degli anni ’90, Laila Pakalnina dirige il suo film che adombra tracce di uno sperimentalismo quasi più visivo, che formale, con un rigore esemplare. Il suo muovere la macchina da presa in queste carrellate che sembrano disegnare precisi semicerchi costituisce una modalità di concepire lo sguardo del cinema, l’altezza della camera sempre attentamente posizionata diventa regola per l’osservazione. Gala punkti sa farsi anche lezione di cinema, mettendo a frutto alcuni fondamenti teorici, ma qui tradotti in quella materia vivente delle persone che diventano protagoniste del film, più o meno loro malgrado. È forse la curiosità che sta a fondamento di questo lavoro, che ridotto alla sua visione può apparire di semplice fattura e di semplice concezione. Ma come sempre è proprio quella semplicità (qui solo apparente) a costituire un traguardo affatto semplice da raggiungere. Il film di Pakalnina, nel suo ipnotico guardare a quella porzione di mondo, diventa la sperimentazione di quel rapporto scopico che già intercorre tra autore e soggetto dell’osservazione e che in quelle immagini, e nella loro costruzione, sa trasferirsi intatto allo spettatore. Con quel valore aggiunto grazie al quale sembra di assistere ad una diretta (tele)visiva, quasi in una visione interattiva e quindi sempre modificabile. Un film che sa diventare per queste ragioni un racconto in divenire.
Sotto un altro profilo il film restituisce quella omogeneità di immagini che sembrano tornare uguali da ogni parte del mondo. Per larga parte il film potrebbe essere stato girato dovunque tanto le abitudini e le interazioni sono identiche e il cinema, amplificando il tema sembra a sua volta espandere questa sensazione di uniformità. Quanto al resto è probabile e forse anche fondato che Gala punkti risulti un po’ come un esercizio di stile, ma forse ben venga un film che racconti uno stile, una calligrafia precisa, un’idea che sintetizzi e rimetta in discussione i temi che sembrano obsoleti del guardare e di quella curiosità che spinge il cinema a cercare, anche nel passato, le forme nuove del proprio presente. Forse ha ragione la stessa Pakalnina che nel respingere l’idea di una complessiva omologazione tra le persone nelle abitudini, si spinge ad immaginare una serie tv fatta di tanti piccoli sguardi sui capolinea del mondo. Un’idea non male che restituirebbe, a sua volta, al cinema, una globalità ininterrotta, un respiro unico e in più direzioni. Un capolinea per molteplici destinazioni.