Una donna, forse due o più: La doppia vita di Madeleine Collins è un mistero che Antoine Barraud costruisce attorno alla figura straordinariamente destabilizzante di Virginie Efira, presenza di luce e d’ombra perturbante quant’altre mai, la Benedetta santificata da Paul Verhoeven proprio nel segno della duplicità semantica… E’ lei Judith Fauvet, un po’ Marnie hitchcockiana e un po’ Veronica kieslowskiana, un’anima divisa in due, occupata da due vite parallele: quella in Francia, nelle curve di una carriera da interprete diplomatica perennemente in viaggio, che conduce accanto al marito Melvil, noto direttore d’orchestra, col quale ha avuto due figli; e quella in Svizzera, accanto a Abdel e alla piccola Ninon, attaccatissima a lei e sempre più incapace di accettare i suoi continui viaggi di lavoro. Sliding lives che scorrono su una personalità tutt’altro che duplice, in bilico sul medesimo sentimento di dedizione, di offerta di sé generosa, anche dispendiosa nel martirio di uno stress che converge su di lei sia dal versante materno che di moglie e professionale: difficile stare dietro a tutto con la medesima attenzione, impossibile non incorrere in errori, inciampi, coincidenze. Barraud, che è autore abituato a contemplare l’altro che è in sé, spinge la sua protagonista in una narrazione a spirale, lasciandola precipitare in un vortice di cedimenti alla verità, che smantella l’architettura di finzioni esistenziali costruite per se stessa.
Il fatto è che Judith vive nella menzogna, ma in realtà non mente: il progressivo disvelamento della sua parabola, offerto con grande perizia di scrittura da Barraud, è la traccia di un necessario incedere nella verità che unifica, esclude, seziona e sanziona. La doppia vita di Madeleine Collins non è tanto un film sul tema del doppio, quanto un thriller sull’impossibilità di contenere in sé una singola persona, sul rapporto tra l’identità intesa come unicità e inseparabilità del sé, e l’identità sospinta nella stratificazione del Sé. Senza incorrere in spoiler che la sapientissima tessitura della scrittura del film non merita, si può dire che il dramma di Judith è quello dell’urgenza irrazionale e dispendiosa dell’elaborazione di un lutto, del farsi carico di una mancanza, dell’insistere sulla separazione non tanto come frattura, ma come punto di contiguità con l’altro da sé. È per questo che, come nei suoi precedenti film (Song, Le dos rouge, i cortometraggi Monstre), anche qui Antoine Barraud sospinge lo spettatore in una sorta di vertigine cognitiva destabilizzante, in cui la sovrapposizione tra le figure, i personaggi, i ruoli e le azioni crea uno sfasamento percettivo subliminale, ma molto concreto.
La forma del thriller che La doppia vita di Madeleine Collins assume è un esito non solo del progressivo e problematico svelamento della verità sulla pelle della protagonista, sul suo crollo psicologico ed esistenziale, ma anche e forse soprattutto è la conseguenza della modalità espressiva adottata da Barraud, tutta puntata sulla flagranza cognitiva delle immagini, sul loro valore percettivo, e non meramente ottico. Questo del resto è un film di mancata coincidenza tra i corpi e la loro storia, di traduzioni di un’esistenza nell’altra, di percezioni sensibili della verità (la piccola Ninon come il figlio maggiore, che sentono gli slittamenti della madre). Judith è una donna in transito, che sta traducendo se stessa in qualcos’altro. Ed è intuizione straordinaria di Barraud, quella di affidare a due registi i ruoli delle due figure che incarnano per la protagonista l’alternativa possibile: Valérie Donzelli che è Madeleine Reynald, la cantante che accompagna Melvil nelle sue esibizioni ed è una sorta di controfigura di Judith. E, soprattutto, Nadav Lapid, che è Kurt, magnifico personaggio, l’uomo delle identità possibili, quello che procura a Judith i documenti falsi e l’ipotesi di un’altra vita e che, con la greve fisicità della sua presenza scenica, ma anche con la dolcezza dei suoi occhi, non desidera altro che essere visto, dunque amato.