I mondi paralleli di Hirokazu Kore-eda hanno sempre una loro forma indipendente, seguono regole morali, legami affettivi pulsioni profonde che non appartengono necessariamente alla vita comune, in genere la guardano come dalla finestra, tenendosi a debita distanza per preservare la propria libertà e l’utopia di una visione differente delle cose. L’imprinting viene sin dai tempi di Afterlife e si spinge con costanza e coerenza sino a Un affare di famiglia (Manbiki kazoku, in originale; Shoplifters nel titolo internazionale) in Concorso a Cannes 71 come fosse una sorta di spinoff di Father and Son, visto nella prospettiva della famiglia povera ma felice, guardato con gli occhi di quel padre squinternato ma dolce, che infatti anche qui è interpretato dal grande Lily Franky. Ancora una famiglia a parte, dunque: relazioni non troppo definite, senza che questo comporti una coesione affettiva minore, anzi… La casa è quella della vecchia nonna, Hatsuke, una pensione lasciatale dal marito per tirare avanti assieme a un intreccio di persone che si configurano come figli, nipoti, mariti e mogli, ma che si tengono insieme più che per effettivo vincolo parentale, per puro miracolo d’amore. Nel poco spazio convivono infatti, oltre alla nipote della vecchia, Aki, anche Osamu e sua moglie Nobuyo, strana coppia che si divide tra svogliato lavoro e i furtarelli nei supermercati che l’uomo mette a segno con l’aiuto del piccolo Shota. Non che il bambino sia loro figlio, ma cresce con loro da quando Osamu lo ha salvato (così pare, almeno) dal sedile di una macchina in cui era stato lasciato da genitori incuranti. Un po’ come ha fatto ora con la piccola Juri, che ha portato a casa salvandola dal gelo del balcone di casa dove l’ha trovata una sera, tornando a casa.
Insomma la scena è quella classica di Kore-eda, costruita come un quadro deviante in cui la norma del reale e le strutture che regolano il mondo si adattano a una visione differente delle cose. L’infanzia è sempre il segno di una ingenuità che si proietta sul mondo degli adulti e ne orienta le scelte, purificandolo dalle incrostazioni depositate sulla flagranza dei sentimenti dagli schemi sociali. Ecco dunque che i temi del cinema di Kore-eda si ripropongono puntuali: la scansione di una visione morale diversificata si adatta alla stratificazione trovata nel nascondimento, nella segretezza della vita, nella verità non detta piuttosto che nascosta. La parentesi affettiva, che determina la verità delle emozioni in campo, si impone come una sfera che libera l’individuo dalle griglie precostruite. E il filmare stesso di Kore-eda si rende segreto, dolce, capace di ascoltare una pulsione del reale che altrimenti sarebbe difficile accettare. Questa coppia che, per ovviare alla propria sterilità, si impossessa di bambini altrui poco amati, risponde allo schema di questo regista, per il quale il rapporto tra appartenenza e riconoscimento non è affatto scontato. Come in ogni suo film, anche in Une affaire de famille la scansione morale degli eventi è cangiante e solo la visione complessiva offerta dal finale permette di tenere insieme davvero la ragione dei sentimenti e il sentimento della ragione. Ciò che si sente dentro è sempre più importante di ciò che appare a occhio nudo e per questo viene riconosciuto come reale, dovuto, necessario.