Si apre con un’alba e si chiude, diciamo così, con un tramonto. È frammentato, composto da una manciata di episodi che ricalcano il medesimo modello di messa in scena: macchina da presa solitamente immobile, soggetto inquadrato frontalmente ma talvolta anche in diagonale e dal basso, arredi riconoscibili, piastrelle decorate, un bicchiere di spremuta, alcune finestre, molti muri. È fulmineo, nonostante i nove episodi siano realizzati in long take (con una cornice ad aprire e chiudere, in totale, quindi, le inquadrature sono undici) dando l’impressione della continuità temporale e l’illusione di un legame con la realtà. Non fa ridere ma è graffiante, ruvido, a suo modo scomodo per come mescola scene di vita quotidiana, apparentemente innocue, alla riflessione politica sulla condizione attuale dell’Iran, tutt’altro che semplice. Con Kafka a Teheran Asgari e Khatami, registi iraniani per la prima volta al lavoro insieme, come dichiarato, osservano le conseguenze «di una regolamentazione pervasiva che s’infiltra nella vita delle persone, sradicando lo spazio privato dove la resistenza potrebbe fiorire» e si comprende perché un’idea brillante, non nuova ma audace, abbracci uno stile così rigoroso capace di tradurre con semplicità e efficacia un potente messaggio politico. La forma è il contenuto. Oltre ad essere la soluzione più economica, se vogliamo anche intelligente, che ha condotto i due registi a rappresentare le storture di un sistema sociale, culturale, politico che si è fatto pensiero prima ancora che azione.
È fatto con due soldi ma sa essere pungente come il miglior cinema di impegno civile, soprattutto quello dei maestri del cinema iraniano. Infatti Kafka a Teheran, titolo della distribuzione italiana che camuffa l’originale Terrestrial Verses, titolo più evocativo e criptico, perché quest’opera ha poco di kafkiano ma molto di poetico, è un film di libertà negate, incomprensioni, frustrazioni e goffaggini maldestre, composto da situazioni separate ma in connessione, che somigliano a schegge appuntite che vanno a scalfire le convenzioni e le convinzioni di chi guarda e ascolta, sulla scia della lezione impartita dai maestri del cinema iraniano sempre attenti a restituire l’immagine sommersa ma esposta di un paese dilaniato, fermo, chiuso, incapace di dialogare. Lo schema è semplice: il soggetto umano, interrogato da una presenza invisibile, sempre fuori campo (si sente la presenza, si intravede una mano una volta e poco più), facente parte della cultura dominante, del potere, delle logiche burocratiche asfissianti (funzionari, insegnanti, poliziotti, datori di lavoro…), è inquadrato nella sua solitudine, smarrito nelle pieghe di un sistema che altera la realtà secondo i dettami di rigide regole che determinano il mondo declinandone il suo profilo più paradossale, farsesco, buffo ma triste e inquietante, per questo kafkiano. La macchina da presa è quasi sempre fissa. Tutto è guardabile ma non tutto si vede. C’è un uomo che vuole chiamare il proprio figlio David ma si sente dire che non può perché il nome è vietato e nonostante il tentativo di controbattere si trova in un vicolo cieco. Spiazzante il successivo episodio Selena, il secondo, in cui lo spettatore presto si rende conto di trovarsi dentro lo specchio verso cui una bambina guarda mentre attende di indossare i vestiti, in un negozio di abbigliamento: lei ci guarda e balla, inconsapevole di essere guardata nella sua ingenuità.
In un film così teorico questo è un chiaro manifesto di intenti e una chiara allegoria della condizione dei cittadini di Teheran, esposti ad uno sguardo indiscreto, invasivo, privi di filtri e difese. Uno sguardo violento di chi è consapevole di essere invisibile e per questo ha un potere. Aspetto ribadito dal quarto episodio Sadaf, dove una donna si trova costretta a dimostrare che non è lei la persona inquadrata nell’immagine a disposizione delle autorità coinvolte nel ritrovamento della sua automobile. Un tableu vivent in cui lo sguardo impatta con i limiti del visibile e dove ci si rende conto delle inquietudini vissute in una realtà contagiata dal sospetto e dal delirio di controllo. E proprio tra le pieghe del rapporto tra capacità e incapacità di vedere, di comprendere e ascoltare, il film offre gli spunti più riusciti forse proprio grazie al suo legame con la poesia e con l’opera di Forough Farrokhzad, indimenticata poetessa iraniana morta trentatreenne nel 1967, autrice dell’opera Versetti terrestri a cui il film si ispira, evidentemente. “Io sono quella candela che, con il dolore del proprio cuore, illumina una rovina” si legge in una delle sue poesie, spesso volte a catturare la bruttura del mondo e le responsabilità dell’uomo. Asgari e Khatami guardano a Farrokhzad come ad un lume che può illuminare il buio attuale dell’Iran. Kafka a Teheran pur essendo poco kafkiano, conduce lo spettatore di fronte ai limiti dello sguardo e all’assurdità di certi sguardi ossessivi. Come sottolinea l’episodio Aram, l’unico, forse, in cui la vittima si trasforma in carnefice adoperando gli stessi meccanismi e le stesse strategie del potere: un ricatto mediante un’altra immagine.
Oppure, come esprimono drammaticamente gli episodi Faezeh, dove una donna subisce il tentativo di manipolazione da parte di un datore di lavoro privato che si allinea alle logiche del potere pubblico, e il dittico al maschile Farbod e Siamak in cui, prima un uomo si trova costretto a svestirsi per mostrare le immagini tatuate sul proprio corpo, poi un altro uomo viene umiliato per la poca dimestichezza con le pratiche e il sapere religioso. Chiudono il cerchio Ali, dedicato al mondo del cinema che dovrebbe adeguarsi a certe soluzioni e Mheri dove una donna si reca al canile convinta di avere visto con i propri occhi il proprio cagnolino essere prelevato dalle autorità. Ma il cane non c’è. Così come non c’è umorismo o satira, piuttosto a prevalere è un disturbante senso di inadeguatezza che fa emergere empatia e compassione nei confronti dei soggetti inquadrati e di ribellione verso le figure del potere escluse dall’immagine. Il film si infiamma in questo conflitto invisibile ma percepibile e profondo tra campo e controcampo. Non potrebbe esserci finale diverso da quello scelto perché Kafka a Teheran non vuole fare altro che fotografare lo stato attuale delle cose, in via di frantumazione. E ripensando a una delle frasi pronunciate da uno degli invisibili a proposito della stabilità dei palazzi costruiti, l’ultima inquadratura genera gli effetti per un beffardo ghigno che condanna tutti al grottesco, alla farsa, all’assurdo. Compreso chi guarda.