Un carretto con dei blocchi di ghiaccio trainato da un cavallo e guidato da un uomo percorre una terra arida, colline e avvallamenti. Tanta polvere, abitazioni poverissime e una fabbrica di mattoni – l’ultima rimasta. In bianconero e in 4:3 sembra il set di un western. E, nel raccontare la fine di un lavoro e di un’epoca, a modo suo Dashte khamoush (Terra desolata, presentato in Orizzonti) lo è. Furore di John Ford in una landa deserta iraniana. Un padrone. Un intermediario, Lotfollah. Gli operai iraniani e curdi (che hanno le mansioni più dure, nel caldo bruciante dei forni). Un uomo e una donna innamorati. Tutti, a sopravvivere in condizioni disperate: per il caldo, il lavoro che sfinisce, i soldi che mancano, le paghe non distribuite, e la concretezza che anche quella vita di stenti terminerà senza nessuna prospettiva. Tranne la certezza che da lì, e nel giro di una settimana, dovranno andarsene per la chiusura di quello stabilimento artigianale. La notizia produce un doppio esodo in un film che della circolarità e del ritorno su ambienti già filmati (gli esterni colpiti dal sole, dal vento, dalla polvere e gli interni delle case abitati dalle famiglie o dell’ufficio e delle stanze del padrone), inscrivendoli nel gesto di ampie e lente panoramiche, fa (fino a insistere anche troppo) il suo segno distintivo. All’ennesimo raduno sullo spiazzo davanti all’edificio del capo, sempre filmato con variazioni del punto di vista e ogni volta popolato della stessa litania sulla crisi di un settore impossibile da sanare, alle frasi consuete se ne aggiungono altre, parole definitive sulla chiusura di quell’attività. Lentamente, in silenzio, uomini, donne, bambini che hanno assistito all’annuncio s’incamminano lungo la strada sterrata, sempre più piccoli nello spazio dell’inquadratura, fino a sparire dal campo. Preludio all’abbandono finale quando si metteranno in strada un’altra volta, ma per andarsene da lì, sempre a piedi e con i loro fagotti.
Opera seconda di Ahmad Bahrami, Dashte khamoush (nonostante l’eccessivo ricorso alle panoramiche circolari come elemento per rappresentare l’immodificabilità della condizione sociale di quelle persone) ha il pregio di riportare alla memoria un cinema iraniano (e non solo) del passato con la consapevolezza di poterne riproporre delle tracce con sguardo nitido e un gran lavoro sul bianco e il nero, si pensi in particolare ai contrasti di luce nelle scene girate nel porticato con le volte dove si svolge una parte della lavorazione dei mattoni, tra la preparazione del fango e la cottura nei forni, e dove prendono forma alcuni significativi dialoghi tra alcuni personaggi. Bahrami porta in primissimo piano i muri, con i loro difetti, lungo i quali scorre la macchina da presa, e cesella le inquadrature aderendo a un cinema classico soprattutto quando lo sguardo si posa apparentemente immobile su squarci del posto, filmati da dietro una finestra o all’aperto. C’è neorealismo, in Dashte khamoush, ma in un senso ampio della definizione, del suo essere radicato in un paese, una cultura, una società, e al tempo stesso plurale, apolide, vivente nella terra del cinema. Un neorealismo disperato, quello del film di Bahrami. Se da una parte c’è l’esodo di una piccola comunità, dall’altra c’è quello che porta alla reclusione, al murarsi vivo, dopo aver chiuso tutte le porte con i lucchetti, di Lotfollah, che in tutta la vita ha conosciuto solo quel posto e in uno dei suoi antri cavernosi decide di rinchiudersi, ostruendo l’apertura con un muro di fango fino a che non entri nessuna lama di luce. Il buio e il suo respiro.