Don’t Worry Darling di Olivia Wilde: la nuova fabbrica delle mogli

Colori pastello, forme non aggressive, non un granello di polvere o un elemento fuori posto: è questo lo scenario di Victory, la comunità creata artificialmente nel deserto in cui si ambienta Don’t Worry Darling, seconda regia di Olivia Wilde, qui anche in un ruolo secondario – dopo aver rinunciato a quello principale in favore di una convincente Florence Pugh. Un mondo in vitro, insomma, modello di un possibile “Make America Great Again” in cui i mariti escono di casa la mattina per mantenere la famiglia, lasciando le donne allo shopping, i pettegolezzi, gli immancabili doveri domestici e l’organizzazione delle feste che proseguono ininterrotte ogni sera. Tutto perfetto, dunque, salvo l’inevitabile crepa che prima o poi si apre nel guscio immacolato. Evidentemente abituata alle distopie frequentate attraverso le opere di Joseph Kosinski (Tron: Legacy) e Andrew Niccol (In Time), la Wilde compone un affresco rutilante, che si fa diretta metafora e critica di una concezione del mondo patriarcale e retrograda. Quella, per essere chiari, che vede nella moderna emancipazione della donna una minaccia all’esercizio maschile del potere. Sin dal suo nome, infatti, Victory ribadisce chiaramente chi ha il controllo del sistema e vuole mantenerlo attraverso un ribaltamento dei modelli sociali contemporanei.

 

 

La metafora, assolutamente esplicita e lodevole, arriva però a traino di un modello narrativo già sfruttato in passato. Se l’esempio primario può essere rintracciato nel bel La fabbrica delle mogli, di Bryan Forbes, è a noi più vicina (e molto più interessante) la serie Marvel Wanda Vision, che nel giocare con i registri della nostalgia e del rapporto di coppia, compiva anche un’intelligente analisi dei modelli iconografici e di immaginario sedimentati attraverso la televisione. Qui un referente più diretto appare quello cinematografico, in cui Wilde si muove per comporre un’ideale parodia dei film con Doris Day. Tutto però non va al di là di un film semplice e semplificativo, che non lascia emergere davvero la verità dei suoi personaggi. Sino alla fine, infatti, Don’t Worry Darling non lascia mai spazio alla fisicità dei suoi attori, appiattiti su un’iconografia di riporto che è tale anche quando si innesca il meccanismo di ribellione e svelamento dell’inganno. E sì che la campagna stampa ha puntato parecchio sul film, battendo il tasto delle (presunte) bollenti scene di sesso tra Florence Pugh e Harry Stiles, fino all’anteprima mondiale in Fuori Concorso alla Mostra di Venezia 2022. Ma alla fine anche quella è tutta una finzione e il film è pudico, senza fremiti né carnalità, non è capace di produrre nuove forme espressive, prigioniero com’è del suo guscio, diligente come il ritmo delle sue scene d’azione e del lavoro svolto dai vari reparti. La fabbrica del cinema, insomma…