Pablo Larraín continua ad arricchire il suo personale Olimpo glamour di figure femminili novecentesche, tutte legate da alcuni tratti comuni: l’instabilità dei rapporti amorosi e una testarda determinazione nel sottolineare la loro centralità dentro le storie, grandi e più piccole che hanno abitato. Il cinema del regista cileno dopo gli esordi legati ad una allegorica e poi sempre più realistica rappresentazione della storia recente del suo Paese, compresi i film usciti successivamente alla trilogia con la quale ha esordito nel panorama internazionale, ha provato a ricomporre, tassello dopo tassello, i mondi personali di tre donne attraverso quell’inevitabile scarto che esiste tra figura pubblica e vita privata, tra sentimenti intimi e proiezione della cronaca, se non della storia, da identificare proprio su quel palcoscenico virtuale che gli eventi storici approntavano. Tre donne che hanno avuto a che fare con il potere politico o economico condizione che determina, nel bene e nel male, il corso delle loro vite. È così che il suo cinema, attingendo ad un immaginario che direttamente deriva da quella stessa materia che compone i sogni del cinematografo, avvolge queste vite affidandole a quel glamour di cui si parlava, ne scolpisce i profili, sconosciuti o meno, inventando quasi vite parallele, aumentando per ciascuna di loro il potere di seduzione e di fascino. Dopo Jackie e Spencer, arriva Maria (in concorso a Venezia81), con il racconto dell’ultima settimana di vita di Maria Callas la divina interprete di tanta musica lirica, ma anche la donna appassionata della musica e narcisisticamente – come chiunque calchi un palcoscenico – innamorata della propria idea di sé stessa, di quella rappresentazione di sé che arriva attraverso la venerazione del suo pubblico.
Ritirata ormai nel suo appartamento parigino, Maria Callas, “La Callas” (Angelina Jolie) ha il corpo e la voce consumati dai mali che l’affliggono, da un uso eccessivo di medicinali che la portano ad una diafana consistenza. I due fidi domestici Bruna (Alba Rohrwacher) e Ferruccio (Pierfrancesco Favino), dimessi e straordinari nel loro ruolo di affidatari delle sue ultime memorie, ne seguono i passi, ne ascoltano i respiri, eseguono senza discutere le sue insensate disposizioni in una consumazione reciproca dei corpi e in una sempre più stretta solitudine che sembra placare ogni dolore. È in questo clima di sgretolamento di una esistenza ricca di amori, di tradimenti e di successi che Larraín accoglie il corpo sempre più trasparente della sua Callas in una identificazione progressiva con l’attrice che le dà il volto, in un rimbalzo di riferimenti e in una sempre più ricercata apoteosi di una bellezza integra da ogni errore, ma che finisce per cedere il passo, nell’ultima fase di una vita consacrata alla bellezza, ad un’idea di umana imperfezione in un canto solitario senza un pubblico, canto che si fa dolore del corpo, dolore per il suo addio al palcoscenico. Tutto accade nella realtà del cinema, anzi in quella realtà che la stessa Callas costruisce. Ad un certo punto, durante un incontro con la sorella Iakinthi (Valeria Golino) per un ultimo addio Maria le dice: «questa autobiografia si sta scrivendo da sola, attraverso le visioni, non so nemmeno se tu sei reale». Qui, in questa istanza di immaginario visionario, dentro il quale, in parte, si inscrive anche il cinema di Larraín, il racconto stesso sembra, ancora una volta, abbandonare ogni idea di consueto biopic per scivolare dentro una favolistica e cupa vita immaginaria che diventa opera esclusiva del cinema, ripetendo la storia personale, ma anche decostruendola e ricostruendola come fa Larraín con i suoi falsi filmini d’epoca in un procedimento che tanto più si fa vicino al reale quanto diventa palese la sua falsificazione. Un procedimento che svela la sua efficacia proprio sul finale, sui titoli di coda nei quali invece i veri filmati d’epoca accompagnano lo scorrere dei nomi dei credits, esaltano nell’ineccepibile contrasto il valore di quel falso.
È in questo nuovo scarto tra vero e falso, tra visione e realtà che sembra navigare il corpo sempre più debole di Maria in quell’alternarsi di ricordi, in quei flash back che lavorati sul bianco e nero o sullo sgranato dell’immagine in 16 millimetri, rievoca gli amori, le passioni, i tradimenti e gli incroci della vita della divina cantante. Un film davvero dalle mille trasparenze nel quale la solida scrittura di Steven Knight coniuga con eccellente resa questo equilibrio tra immaginario visionario e svolgersi della cronaca. C’è il desiderio per Maria di non finire la vita, provando a immaginare, ancora una volta, la forza della musica e del suo canto come antidoto ad ogni disperazione. È con questo sentimento che va interpretato lo slittamento lento verso l’addio. Un sentimento che diventa tratto programmatico di ogni sua ultima volontà, compresa quella caparbia di abusare dei medicinali contro ogni parere medico e di cantare ancora una volta in una specie di definitiva e disperata prova per il suo corpo e la sua voce che si fa rarefatta. Non scrive la storia questo cinema di Larraín, ma inventa ancora una volta un mondo immaginario fondando tutto sulla realtà e se nella sequenza in cui Maria va a trovare per l’ultima volta sul letto di morte Aristotele Onassis fosse entrata Natalie Portman nelle vesti di Jackie, l’apoteosi del vero e del falso si sarebbe compiuta in una congiunzione che di sicuro da qualche parte è accaduta ma di cui forse non abbiamo testimonianza e in quella intimità tra dolore e amore il cinema avrebbe compiuto il miracolo di fare coincidere, ancora una volta, l’immaginario con il reale nella visione di un istante irripetibile, degno di un ultimo applauso a scena aperta.