FilmmakerFest – Ghost Elephants di Werner Herzog: i sogni che nutrono il mondo

Un altro viaggio alle origini del mondo, o meglio, alle origine dell’uomo e del suo sguardo. Werner Herzog con Ghost Elephants (Fuori concorso a Venezia82) torna in Africa per cercare con il tramite del biologo, entomologo ed esploratore sudafricano Steve Boyes i mitici elefanti fantasma, la cui leggenda si perde nei racconti tramandati dalle tribù dei boscimani che vivono nell’altopiano dell’Angola. Prima di tutto un viaggio che parte dalla sala centrale dello Smithsonian Museum di Washington, dove sono conservati i resti di Henry, un gigantesco elefante catturato e ucciso da un cacciatore negli anni Cinquanta del secolo scorso e poi ricostruito con assoluta fedeltà e messo in mostra come un trofeo. Henry è il più grande elefante mai incontrato e gli studi compiuti da Boyes suggeriscono che in Angola, in questo luogo ancora profondamente selvaggio, potrebbero vivere i suoi simili. La spedizione parte dunque dalla Namibia, dove Herzog si sofferma su alcuni uomini del villaggio in cui sono ospiti. Solenne, il suo sguardo indugia sui volti di giovani e anziani, come quando assiste ai gesti minimi e lenti di un vecchio concentrato a riparare il suo strumento musicale. Quella sarà la sua occupazione per l’intera giornata, e forse anche più a lungo, perché ogni tocco ha un significato profondo ed è fonte di una gioia che noi, nel nostro procedere veloce, non potremo mai conoscere.

 

 
Ed ecco il primo mistero svelato da un film denso di piccole sorprese, come preziose miniature, che arricchiscono di emozione Ghost Elephant. Un documentario in cui la verità non è l’obiettivo finale, perché il percorso sarà costellato di scoperte che hanno a che fare di più con la realtà percepita e vissuta dagli africani, con i sogni, le illusioni, le leggende, la mitologia che non è mai solo invenzione, ma va analizzata con tutti i sensi, prima che con la logica, proprio come l’elefante che Boyes insegue grazie alle tracce che lascia sul suolo e sulla corteccia degli alberi, ma anche ai dettagli impercettibili captati dal sesto senso dei tracciatori, che sanno leggere questo paesaggio. Ecco l’universo herzoghiano nel grande continente, che il regista attraversò fin dai suoi esordi dietro la macchina da presa, come se questo ultimo viaggio fosse una prosecuzione di quelli degli anni Settanta e Ottanta, nei deserti di Fata Morgana, nelle assurdità estatiche di Echi da un regno oscuro o Cobra Verde, nella poesia umana di Wodaabe. E che il centro dell’indagine sia un elefante, con tutte le infinite implicazioni culturali e antropologiche che lo legano all’uomo, la dice lunga sulla indomita ricerca di Herzog di un luogo ideale in cui il sogno entra con forza e discrezione nella realtà (come le australiane formiche verdi).

 

 
Ghost Elephant è un film sul cinema, sull’ossessione che produce cinema e sulla innata fiducia nell’immagine da parte di un regista/esploratore che ci fa notare non senza ironia, che alla fine, delle tante “trappole” escogitate per catturare dettagli importanti di questo elefante (una freccia per raccogliere uno strato di pelle, le videocamere ultrasensibili disposte tra gli alberi), solo l’occhio di un semplice cellulare riuscirà nell’impresa, ma sarà come la grotta degli uccelli in Diamante bianco, visibile fino ad un certo punto, sfuocato e in movimento, escluso dal confronto diretto con l’occhio umano perché il sogno possa continuare a tenere in vita gli elefanti e l’umanità, se è vero, come gli indigeni credono, che l’estinzione dei primi sarà seguita necessariamente da quella dell’uomo. Solo così, in questa indeterminatezza, Steve Boyes potrà continuare a percorrere i sentieri di questa foresta, sempre sulla soglia di un sogno  che alimenta la realtà.