La terribile natura farsesca del potere, ovvero smettere di preoccuparsi e imparare ad amare la calda ombra del dominio. Adam McKay dispone in Vice l’articolarsi lucido della materia pulsante di cui è fatto il grande gioco dei potenti e lo illustra con l’ironia che è quel sentimento del contrario di cui abbiamo sempre sentito parlare. Lo aveva già fatto con La grande scommessa, dove smembrava il corpo dell’alta finanza, torna a farlo ora con le stanze del potere politico. L’effetto è un film che capovolge letteralmente le geometrie chiaroscurali dei Boiardi di Ejzenstejn, gli avvitamenti shakespeariani di Orson Welles: il potere per lui è una sorta di farfalla che disperde polline su un film che gioca col fuoco, inventandosi un biopic che disarticola il rapporto tra vero e verosimile. La messa in scena ironizza su se stessa perché palesemente inquieta rispetto alla flagrante gravità di quelle verità che si perita di raccontare con formule ancora una volta ben documentate. Il disegno silenzioso e inconscio di un uomo senza qualità che ascende al potere per pura gestione dell’ambizione eterodiretta: Dick Chaney, ovvero il ventriloquo che aveva la sua mano nella testa del Presidente George W. Bush, l’uomo dell’11 settembre.
McKay racconta il gioco greve di un uomo chiuso in se stesso, insondabile, niente affatto un mostro ma un lucido e placido gestore del potere. Il film fiancheggia gli eventi che hanno fatto la storia recente e si dispone in ascolto di un personaggio che ha saputo spiazzare i riflettori. Le diversioni surreali di cui Adam McKay si fa carico, le formattazioni espressive inattese, sono funzione di un rapporto col narrabile che travalica il bisogno di definire. È come se ci fosse l’esigenza di liberare la forma del narrare per disarcionare il potere dalla narrazione di sé che il cinema americano (e non solo) ha sempre fatto, anche quando le stanze della Casa Bianca sono state luogo di figurazioni da commedia gentile. Il cerone sui volti di Christian Bale, Sam Rockwell, Will Carrell è la maschera che ride di se stessa perché ride di noi: volenti e nolenti, giochiamo tutti al gioco del potere.