«In fondo il nostro unico dovere è dissodare in noi stessi vaste aree di pace, per irraggiarle sugli altri. E più pace c’è nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato». Così scriveva nel suo Diario Etty Hillesum, ebrea, morta in campo di concentramento. Pare ovvio che a questo voglia puntare l’ultimo film di Gianni Zanasi mosso dall’idea, senza dubbio romantica, di raccontare una storia d’amore in tempo di guerra attraverso i codici della farsa, del sogno, della commedia grottesca. E fin qui, tutto bene. Tom (Edoardo Leo) è laureato in Lingue romanze ma gestisce l’attività commerciale del fratello: alleva e vende vongole confrontandosi con corruzione e malaffare; Lea (Miriam Leone) è una psicologa, figlia di un ex generale dell’Aeronautica ora sottosegretario alla Difesa e sorella di un soldato, inquieta e profondamente contraria a qualsiasi conflitto armato. Intorno a loro c’è Roma, vittima delle sue contraddizioni architettoniche, e scenario delle storie di alcune altre figure umane in ricerca, disorientate, ferite, arrabbiate. Su tutte spicca quella di Mauro (Giuseppe Battiston) che gestisce un bar ma è in attesa dell’opportunità che gli possa cambiare la vita che dice di non avere mai vissuto. L’incapacità di mediare il tragico episodio della morte di una ragazza italiana durante una vacanza in Spagna, porta l’Italia a entrare in guerra con la Spagna e la Francia, schierata per “tutelare il principio dell’unità d’Europa”. Il caos prevale, prima come forza che travolge le vicende private di Tom e Lea, poi come meccanismo che manovra gli incastri della loro relazione infine come espediente per affrontare l’inevitabile scelta che cambierà la vita di ciascuno: amare o morire.
Scritto insieme a Michele Pellegrini e Lucio Pellegrini, questo apologo sulla pace giustissimo nelle intenzioni stride al confronto con i tempi che stiamo attraversando, decisamente più grotteschi di quanto si possa immaginare. Sì, vero, non è la rappresentazione della realtà a interessare, bensì una sua trasfigurazione, un ripensamento, un possibile scenario apocalittico (e il film è stato scritto nel 2019), ma ciò di cui si sente la mancanza è proprio ciò di cui si vorrebbe parlare, anzi ciò che permette di farlo qui, con un film: il cinema. Perché in un film così denso (di provocazioni deboli, idee incompiute, personaggi fragili, molteplici intrecci narrativi che si aggrovigliano) e così razionale (tutto spiegato, in linea, soltanto in apparenza caotico) a mancare è proprio la forza di credere nell’immaginazione, nella profondità di un’immagine che può essere politica più di tanti slogan, nel valore del silenzio e dello sguardo. Anche nei suoi (pochi) passaggi più compiuti e ambiziosi il film di Zanasi non crede di potercela fare. Basterebbe riguardare le camminate notturne di Lea per accorgersene o le brutte scene di dialogo tra Tom e l’intermediario corrotto (Briguglia), la confessione sul divano dell’amico (Fresi), ma anche la ridicola scena coppoliana (!) nel prefinale quando Tom e Lea ritrovano nella spa il padre-Kurtz di lei (Popolizio). Oppure, la poco sottile ambiguità del personaggio di Mauro, non rivela altresì una vera confusione sul piano morale-politico? In fondo la sua miseria è giustificata da un passato frustrante che lo ha spinto a vivere in un vicolo cieco, senza possibilità di riscatto, ma la restituzione che ne abbiamo giustifica in lungo e in largo un’idea della pena del contrappasso che lascia interdetti. Come se tutto fosse, appunto, già scritto. È chiaro che a Zanasi interessi far emergere il lato chiaro delle cose ma l’impressione è che questo procedere per tentativi anestetizzando la cattiveria e appiccicandola a uso e servizio di dialoghi sottolineati, scene ricalcate, svolte prevedibili, serva soltanto per addolcire la pillola, innescare quel facilissimo processo di non-immedesimazione tipico di un certo cinema italiano ruffiano la cui pietra angolare resta Perfetti sconosciuti e, in sostanza, non spaventare il pubblico, rassicurarlo, compiacendosi reciprocamente. È una scelta anche questa, certo. Ma senza graffi, senza la stramba leggerezza che contraddistingueva il suo cinema, soprattutto senza memoria, questo film di Zanasi perde la consistenza di cui vorrebbe appropriarsi smarrendosi nel caos da lui generato.