Declinazioni di “queer” alla decima edizione della Woche der Kritik, la Settimana della Critica del festival di Berlino. “Queer” nel senso ampio del termine – tanto riferito alla sfera sessuale quanto al suo significare eccentricità, trasversalità, appartenenza a un vivere fuori dalle norme date. “Queer” cinema, quindi, in questa multipla accezione. Alcuni dei film presentati nei primi giorni nei programmi “dedicati” della rassegna esprimono, pur con esiti differenti, questa investigazione dello stato delle cose in relazione a una identità “queer” sia dei contenuti sia della forma e della narrazione utilizzate. Se un film come Camping du Lac (opera prima, che ha iniziato la sua vita allo scorso festival di Locarno, della quarantaquattrenne cineasta e artista parigina Éléonore Saintagnan – si veda la recensione di Davide Di Giorgio) è testo esemplare di spiazzamento, di re-invenzione di un luogo (la zona di campeggio che dà il titolo al film, fatta di bungalow in un’area della Bretagna immersa nei boschi e nell’acqua) abitato da persone che lì hanno deciso di rimanere per esplorare nuove possibilità di vita lontano dalle grandi città, e di nuove scoperte per la protagonista-narratrice (la stessa regista) sempre più incuriosita e affascinata da quel mondo al punto che la sosta forzata per un guasto all’auto si trasforma anche per lei nell’inizio di un percorso alternativo al quale aderire; se Camping du Lac si propone come nitida osservazione di un posto e dei suoi abitanti ricorrendo a una struttura diegetica, estetica, musicale che provoca incanto e una sublime contaminazione, attuata per sottrazione e una serie infinita di detours, con un uso magico dei flash-back (senza manipolazioni cromatiche che li differenzino dal presente), inscrivendosi in striature semantiche nelle quali realismo e favola coabitano nella più limpida naturalezza; se Camping du Lac è quindi espressione di un cinema “queer” per le magnifiche ossessioni e alterità che produce, altri titoli guardano al “queer” con altre modalità e punti di vista. In apertura una immagine di An Evening Song (for three voices) di Graham Swon.
Ecco dunque An Evening Song (for three voices) e Dicks: The Musical. Entrambe opere americane rispettivamente firmate da Graham Swon (al suo secondo lungometraggio) e da Larry Charles (regista di affermata filmografia, autore provocatorio, irriverente, controverso di lavori quali Borat, Brüno, Religiolus – Vedere per credere). Il testo di Swon è un esperimento per immagini, voci, musica, corpi ambientato in Iowa nel 1939. Ci sono solo tre personaggi in questo flusso dove una storia di per sé non originale (un triangolo amoroso) è sviluppata ricorrendo a una serie di espedienti che pongono il film in un contesto fuori dal comune che produce al tempo stesso intrigo e perplessità. Perché per raccontare di Richard (scrittore affermato di romanzi popolari), della moglie Barbara (che si è arresa alle sue ambizioni letterarie), della domestica Martha (giovane molto devota con il volto deturpato da quelli che potrebbero essere lasciti di ustioni), del loro con-vivere in una dimora in campagna, dell’instaurarsi di una relazione a tre, Swon adotta, fin da subito e senza mai abbandonarli, stratagemmi che pongono il film fuori da un qualsiasi tempo (anche se la didascalia afferma preciso l’anno di svolgimento dei fatti).
Ciò per il ricorso a tecniche da cinema muto, manipolazioni del tessuto visivo, immagini opache e flou, un costante uso delle sovrimpressioni, l’alternanza dei dialoghi con pensieri e monologhi fuori campo (la “canzone per tre voci” del titolo). I personaggi si seducono, riposano, agiscono all’interno di tale rappresentazione grafica negli interni della casa e negli esterni della natura circostante. Ancora di tutt’altra espressione nell’esplorazione di “queer” è il nuovo film di Larry Charles che, su un soggetto che funge da pre-testo (due giovani uomini si scoprono gemelli e si danno da fare per riunire i loro genitori separati), divampa in un contenitore di bizzarrie tramite il musical. Dicks: The Musical è un musical “queer”, sessuale e eccentrico, pop, glamour, caricaturale per scelta, colorato, pieno di split-screen (a simboleggiare l’essere gemelli dei protagonisti, uno da una parte e uno dall’altra delle inquadrature raddoppiate e a volte scambiandosi lo spazio loro assegnato), abitato da una recitazione anch’essa sopra le righe, nel segno di espressioni esagerate. Il tutto per un kitsch espanso, tra commedia e melodramma, anti-realismo tipico del musical (che certo Charles ama), passaggi gay e etero, tracce di splatter e belle canzoni nei tanti numeri musicali disseminati nel corso di un film che porta sullo schermo uno spettacolo teatrale off-Broadway.