Aveva i capelli lunghi alla Mario Kempes, i calzettoni sempre abbassati e una meravigliosa dedizione nei confronti del dribbling inutile, fine a se stesso. Ezio Vendrame poteva sbocciare come calciatore solo nei libertari anni settanta: “Amavo il calcio ma non sono mai stato un giocatore”. Era nato nella pasoliniana Casarsa nel 1947 e se n’è andato qualche giorno fa consumato da un cancro. Con rara pigrizia tutti i giornali lo hanno salutato come il George Best italiano, ma in comune avevano solo il desiderio di sprecare il talento. Sopravvissuto a un’infanzia tristissima in un collegio per bambini poveri, ha cercato la sua strada con un pallone fra i piedi. Ala atipica aveva giocato nell’Udinese, ma era stato con il Lanerossi Vicenza che aveva esordio in serie A nella stagione 1971-1972, diventando subito l’idolo dei tifosi biancorossi. Dopo tre anni, nel 1974 passò al Napoli disputando la miseria di tre partite in campionato, prima voluto e poi allontanato (per disperazione) dall’allenatore Luis Vinicio. Poi scelse il Padova in serie C, dove rimase due stagioni collezionando 57 presenze. Infine indossò la maglia del Pordenone vincendo il campionato di serie D 1978-1979, chiuse nella squadra del suo paese, la Junior Casarsa.
Amava la bellezza e la gratuità del gesto. Durante una partita poteva capitare di vederlo fermare il pallone, appoggiandoci sopra un piede, quasi volesse salire sulla sfera, contemporaneamente portava la mano alla fronte per scrutare l’orizzonte (“montavo sul pallone come fossi la guardia di un forte che deve vedere ciò che sta arrivando, per me era un modo per leggere il match, decidere quale compagno lanciare…”). Una volta vide sugli spalti l’amico cantautore Piero Ciampi, abbandonò subito la partita per andare a salutarlo. Gianni Mura gli chiese un’intervista e lui lo convocò sulla tomba di Pasolini perché “è la persona più viva del paese”. Amava la poesia, la musica (è capitato che si portasse la chitarra in panchina), scrivere (ci ha regalato opere gustose fin dal titolo: Una vita fuori gioco, Se mi mandi in tribuna godo, Vietato alla gente per bene). Beveva , fumava, andava a donne, dissipiva il talento con metodo. Una volta giocò ubriaco, il giorno dopo i giornali “lo davano tra i migliori, perché i movimenti senza palla sconcertavano gli avversari” (Mura). Aveva provato a fare l’allenatore dei giovani, ma non faceva per lui, anche se le sue squadre giocavano benissimo ed era un insegnante di vaglia, lasciò perdere perché sognava una squadra di soli orfani. Il football non lo attirava più: “Il calcio di oggi non esiste, è finto, è acrilico…” Negli ultimi anni ha diradato i suoi impegni pubblici, lo si vedeva per presentazioni di libri o incontri letterari. Nell’ottobre del 2019 in un’intervista al Gazzettino spiegava:””Se devo parlare con degli imbecilli, preferisco morire di solitudine”. Ha giocato con le parole da fuoriclasse ed è andato in gol:”vivo la vita un giorno per volta come fosse sempre l’ultimo dei miei giorni. Questo il mio motto: prima che il tramonto si chiuda, approdare in un’emozione o morire. E così ogni mio giorno, raggiunto il suo porto, diventa un meraviglioso giorno…”.
C’è una linea sottile che divide un morto da un vivo: io non ho ancora capito da che parte della linea mi trovo.