“Siamo schiacciati dal tempo. Non lo si può fermare”, commentava Lucio Fulci a Michele Romagnoli nel libro L’occhio del testimone. Eppure proprio il tempo ha visto l’opera del regista romano transitare dai margini delle storie del cinema al trionfo di un fandom ampio e appassionato. Il tempo è anche quello che è trascorso dalla presentazione veneziana di Fulci For Fake e dalla successiva uscita nelle sale italiane, che hanno visto questo peculiare progetto assumere vita propria e guadagnarsi il rispetto e l’attenzione di una platea sempre più ampia. Il racconto tra fiction e documentario della memoria e dell’impossibile verità del cineasta, ha infatti intercettato tanto il bisogno degli appassionati di “saperne di più” del loro beniamino, che la voglia di intrecciare i percorsi del racconto in una maniera fuori dagli schemi degna del cosiddetto e fulciano “terrorismo dei generi”. Ora, l’uscita in Blu-ray per Midnight Factory, in un’edizione doppio disco zeppa di contenuti speciali, non fa che ampliare le traiettorie di un titolo destinato a fornire materiale d’interesse ancora per molto tempo a venire. Per l’occasione ne abbiamo discusso con il regista, Simone Scafidi, cercando di intrecciare la sua opera a quella di Fulci, in un’intervista a largo raggio per fare il punto sul progetto e rilanciarne gli argomenti.
Benvenuto Simone. Lucio Fulci definiva “il dubbio di un cattolico” la traccia portante del suo cinema. Un dubbio che poi si manifestava in forme di estrema crudeltà nei confronti dei suoi protagonisti. Dubbio, religione e crudeltà sono alla base anche del tuo esordio con Gli arcangeli, vorrei quindi che ci parlassi del tuo rapporto personale con il cinema di Fulci: quanto ti ha direttamente influenzato (se lo ha fatto) e quanto eventualmente te ne sei distanziato?
Fulci è il regista che amo di più, ma il suo cinema non mi ha mai direttamente influenzato. L’osservazione che fai è però molto centrata, ci sono dei temi ne Gli arcangeli che riflettono quelle che Fulci indicava come linee guide del suo percorso. Film come Beatrice Cenci o Non si sevizia un paperino hanno affrontato in maniera molto potente la distorsione dei principi religiosi, sia quella sistematica (nel primo film) che quella legata alla follia personale (nel secondo). Sono film, però, che mi colpiscono meno per il loro aspetto contenutistico, un po’ troppo declamato, e maggiormente per la forma, per la messa in scena della violenza. Non si sevizia un paperino è un film profondamente italiano, in cui vengono ritratti mondi distanti – i paesani la cui diffidenza verso il diverso si tramuta in odio omicida; la borghese leggerezza dei costumi del personaggio della Bouchet; il cinico realismo del giornalista interpretato da Milian; l’innocente ma pericolosa fascinazione dei bambini verso il sesso e la morte – che si incontrano ma che non possono coabitare pacificamente. Per molti aspetti, e questo non si è ancora capito, è un’opera non distante da Rossellini o da Pasolini, per quanto calata nelle rigide dinamiche del giallo. In un certo senso, Gli arcangeli seguiva una strada simile, per quanto incentrata sui giovani dei primi anni 2000. Il mondo borghese delle piccole e ricche cittadine del nord, le istituzioni declinanti (famiglia, religione, scuola) incapaci di arginare la deriva del protagonista sono lo sfondo di un’Italia in cui convivono la brama di qualcosa di superiore e la programmatica distruzione dell’altro. Al di là di questo, quello che amo in Fulci è la sua abilità di gestire il ritmo delle immagini, la costruzione delle scene. Penso nello specifico a L’aldilà, un film in cui il percorso dei protagonisti verso un inimmaginabile altrove è accompagnato da un magico equilibrio tra momenti meditativi e brusche accelerazioni, sia interne alla stessa scena, sia nell’architettura globale del film.
Fulci For Fake arriva dopo altri tuoi lavori su personaggi dai contorni “larger than life” in cui realtà e leggenda si mescolano: lo scrittore Dante Virgili in Appunti per la distruzione e il calciatore Javier Zanetti in Zanetti Story. Come mai ti affascinano queste figure così stratificate e vedi un legame di continuità fra le loro storie?
Il legame tra questi tre biopic non è nelle vite dei protagonisti, ma nel modo in cui sono state raccontate. Ho scelto (nel caso di Zanetti Story insieme al co regista Carlo A. Sigon) sempre tre forme narrative che si adattassero al soggetto. Per ogni personaggio è stato disegnato un abito che gli calzasse. Il film su Virgili mescola interviste che ne ricostruiscono la vita insieme a brandelli di fiction ispirati al suo romanzo La distruzione. Ma la narrazione della sua esistenza si arresta improvvisamente a metà film, passando a trattare un tema generale: il male. Questo perché Virgili è stato additato come un uomo che aveva scelto il male, avendo sposato un orrore come il nazismo e idolatrato altri tremendi totalitarismi. Per Zanetti, uomo ritratto spesso come lineare e solidamente ancorato alla realtà, Carlo e io abbiamo costruito una cornice mockumentary, con l’inesistente scrittore cieco argentino Albino Guaron che ha scritto un libro su Zanetti e che ne canta le gesta. Questa scelta, così apparentemente avulsa dal soggetto, serve anche per dare forma al paradosso Zanetti: il capitano più vincente della storia neroazzura è quanto di apparentemente più lontano c’è dalla proverbiale pazza Inter. Ma, come dice sorridendo Massimo Moratti nel film, in realtà Zanetti è pazzo. E il film dà corda a questa suggestione, sia nel linguaggio, sia mostrando quanto la costanza, la caparbietà, la forza che hanno guidato Zanetti a superare qualsiasi ostacolo – personale e di squadra – portandolo a vincere tutto da protagonista siano lo specchio di una dedizione che sconfina appunto nella follia più nobile. Ho cercato, nei miei tre biopic, sempre una via diversa ma giusta per il personaggio raccontato. Questo credo sia il motivo per cui i miei film siano così difficili da incasellare in un tratto unico, in un marchio che si ritrova in ognuno di essi. Ho girato sei lungometraggi, ma credo sia molto dura scovare una poetica costante, uno stile ricorrente. Ne sono felice, perché vuol dire che i film vengono prima di chi li dirige.
Il dubbio è anche la traccia che emerge da Fulci For Fake, sia a livello narrativo che formale: da un lato abbiamo quindi la ricerca su chi era realmente Fulci, tra realtà e leggenda auto alimentata. Dall’altro versante c’è l’esperimento del documentario con una componente di fiction. Com’è nata la particolare struttura del film?
Ho pensato che l’uomo che diceva di terrorizzare i generi meritasse un biopic che non avesse modelli. Fulci For Fake non è un documentario, non è un mockumentary, non è un docufilm. È un film di finzione. La storia dell’attore (Nicola Nocella) che deve interpretare Fulci in un film e che si mette a vedere materiale sul regista, a intervistare persone è pura fiction. Le parti canoniche di documentario (interviste, foto, repertorio) sono fagocitate dalla fiction. La forma artefatta avalla fin da subito non tanto il mito di Fulci, ma la sua natura: quella di ricreare la realtà. Fulci inventava sul set e inventava nella vita, si smarcava dalla realtà, la fuggiva quando essa gli stava col fiato sul collo. Ma la abbelliva anche, dava a se stesso – attraverso immaginari racconti di amicizie con grandi registi stranieri – quel posto che, ingiustamente, non aveva ottenuto. Fulci For Fake è un film di materia umana viva, come i commoventi resoconti sul suicidio della moglie di Fulci e sul tragico incidente della figlia Camilla, come i racconti paradossali, ma che inquadrano l’uomo Fulci, che fanno Enrico Vanzina e Paolo Malco. Ma è anche un film che cerca di indicare una via altra per affrontare il biopic, partendo dall’immagine iniziale di Nocella, truccato da Fulci anziano in Un gatto nel cervello, che si strappa dal volto il trucco prostetico, perché non è la verosimiglianza che conduce alla verità dell’uomo che si impersona. Ricordo che girammo questa scena ai tempi in cui sulla stampa, sui social si idolatrava la totale somiglianza di Pier Francesco Favino a Craxi in Hammamet, in quella vana illusione che fa gridare ‘È uguale!’ e credere che la mimesi somatica sia quello che conta per raccontare un personaggio. Fulci For Fake è più simile a film come Vincere di Bellocchio o Il Caimano di Moretti, in cui viene proprio masticata e sputata l’ossessione della replica visiva. E, in fondo, Fulci aveva fatto lo stesso nel suo Un gatto nel cervello, in cui interpretava se stesso. Un se stesso falsificato, che però ci diceva molto di lui.
Fulci ha avuto letteralmente due vite: artigiano del cinema “a latere” in vita e maestro acclamato dal fandom dopo la morte. Queste due anime hanno influenzato la lavorazione del film? C’era la voglia di risarcire il regista delle incomprensioni del suo tempo e avvertivi l’ansia da prestazione nei confronti di una comunità di appassionati molto esigente? O, al contrario, hai lavorato seguendo una traccia più personale e empatica, senza farti influenzare dal contesto?
Quando si gira un film, qualsiasi sia il tema, c’è sempre il timore di deludere, di non piacere. Con Fulci For Fake ho deciso di fare quello che mi sentivo di fare, di seguire quella che, come ho detto prima, fosse la migliore strada per raccontare Fulci. Il film ha tutta una serie di elementi che possono far gioire la fanbase fulciana: foto mai viste prima, filmati della vita privata e dei set totalmente inediti, interviste sia ai collaboratori storici (Frizzi, Salvati, Malco) che a chi non aveva mai parlato in video di Fulci (Vanzina, Romagnoli, il suo segretario Bitetto). E, su tutto, il sangue fulciano, con le splendide parole di Antonella Fulci e la prima e unica intervista alla sorella Camilla, vera chimera per gli appassionati di Fulci, che da anni sognavano di vederla e sentirla. Premesso questo, credo che la parte con Nicola Nocella sia però quella che dà al film il respiro di un’opera cinematografica, che eleva il racconto con spunti visivi e riflessivi (le considerazioni che Nicola fa, tramite voice over, su Fulci) che pongono una serie di domande allo spettatore. Fulci For Fake non cerca di dare a Fulci quello che non ha avuto in vita, perché credo che non sia il compito di un film e che comunque non sia possibile. La sua fama è ugualmente in costante crescita, a 24 anni dalla morte il suo successo aumenta, invece che diminuire. Nel film, anzi, si cerca di circoscrivere la grandezza di Fulci, limitandola ad alcuni film. Io credo che, su 60 opere, Fulci abbia diretto 10-12 grandi film (e ci metto anche titoli non horror/thriller, come Luca il contrabbandiere e I quattro dell’apocalisse). Non sento il bisogno di dare peso alle sue commedie, che nessuno all’estero conosce e che in Italia sono considerate, giustamente, inferiori a quelle di Risi, Monicelli, Germi e altri. Non tutto quello che Fulci ha fatto è memorabile, anzi. Ma una dozzina di ottimi film non è comunque roba da poco, non credo siano tanti i registi che possano vantare un’opera così ricca di titoli riusciti. Tornando alla rivalutazione di Fulci, dobbiamo pensare che un premio Oscar come Guillermo del Toro ha presentato il recente master in alta definizione di Zombi 2. Onori del genere non capitano a molti registi italiani. Anche se, a dire il vero, sarebbe bello che a elogiare Fulci non fossero solo registi che amano il genere, ma anche autori che non lo affrontano necessariamente. Partendo dall’Italia, mi piacerebbe che Bellocchio, Garrone, Sorrentino mettessero anche il nome di Fulci tra i grandi del cinema italiano. Sarebbe un segnale importante, uno scavalcamento dei confinamenti dovuti al genere, alle categorie dell’industria.
A proposito di sovvertimenti, cosa ti ha spinto a usare un attore come Nicola Nocella, che solitamente associamo a un cinema brillante e decisamente lontano dalla problematicità fulciana?
Anni fa, avevo pensato a un film su Fulci, interamente di fiction, con tre archi temporali alternati: i tempi del Centro sperimentale di cinema e gli esordi sul set; l’epoca dei grandi horror, da Zombi 2 a Lo squartatore di New York; gli ultimi anni di vita, da Un gatto nel cervello alla morte. Per la parte di Fulci giovane avevo pensato a Nicola Nocella. Quando è nato Fulci For Fake, ho capito che Nicola era la persona giusta per affrontare un film in cui leggerezza e tragedia si fondono. Nicola è un interprete non solo eccezionale, ma anche capace di creare un’atmosfera serena e divertente sul set. Il suo ruolo non era semplice, non ha mai battute – se non in voice over – e ha lavorato esclusivamente col corpo e col volto, in maniera realmente comunicativa.
Il film ha avuto un ricco percorso dai festival, a partire da quello di Venezia. Mi incuriosisce sapere quale sia stata la risposta dei mercati esteri al film, dove notoriamente il fandom di Fulci è ancora più ampio e di vecchia data rispetto al nostro.
I festival hanno portato il film a essere proiettato in tutti i cinque continenti, se ne è scritto in tutto il mondo. A livello di mercato, al di là di una limited release nelle sale in Canada – pre Covid -, l’uscita più significativa è stata quella statunitense con la Severin, un’etichetta molto nota agli appassionati. Prima hanno organizzato alcune proiezioni – tra cui una con la prestigiosa American Cinematheque – e poi hanno editato il Blu-ray a fine agosto, dopo un lancio di una tiratura limitata con copertina lenticolare. A quanto pare, il film sta andando molto bene. In Europa è uscito in streaming a pagamento in Germania, Austria e Polonia. Presto sarà su Amazon Uk. Sulla scorta dell’uscita negli Usa con la Severin, molto probabilmente ci saranno altre edizioni home video anche in Europa. Intanto si inizia in Italia con Midnight Factory, una garanzia per tutti gli appassionati collezionisti. In generale, il film sta piacendo, la sua particolare struttura viene percepita come valore aggiunto. E, come dicevo prima, il culto di Fulci è in costante crescita e quindi la sensazione è che Fulci For Fake diventerà un piccolo long seller e verrà visto anche nei prossimi anni.