Cannes78 – Fidarsi di Tom Cruise: Mission Impossible – The Final Reckoning, di Christopher McQuarrie

L’unico modo per fermare l’Entità che minaccia il mondo è comportarsi nel modo meno prevedibile, formando alleanze improbabili, oltre le normali divisioni fra rivali, nazioni, fazioni, buoni e cattivi. Ethan Hunt lo ripete in più di un caso in questo The Final Reckoning, ottavo capitolo della trentennale saga di Mission: Impossible presentato in anteprima al festival di Cannes78, in cui invita gli amici e i nemici (e il pubblico) a fidarsi ancora di lui. E il regista e co-sceneggiatore Christopher McQuarrie lo asseconda, creando una storia semplice nell’impianto ma appassionante nei suoi snodi. Si riprende da dove Dead Reckoning – Parte 1 aveva lasciato lo spettatore, con l’Intelligenza Artificiale che rappresenta una minaccia sempre più concreta e ora vuole prendere possesso delle testate nucleari del mondo per dare vita all’Armageddon. Hunt deve bloccarla, ma per far questo ha bisogno di rimettere ancora insieme la sua squadra e agire libero dalle alte sfere governative che lo ritengono ormai un pericolo. Unito, il gruppo dovrà superare Gabriel, l’uomo che sta giocando in vantaggio per arrivare per primo all’Entità e poterla così controllare a suo piacimento. Già da queste poche note si delineano chiari i ruoli, quello che manca in Final Reckoning è l’inganno che aveva caratterizzato tutti i film precedenti: le maschere di gomma sono utilizzate poco e nulla, così come i camuffamenti con dispositivi à la James Bond. Nel mondo dell’intelligenza artificiale che controlla le identità a suo piacimento, infatti, l’inconoscibilità è legge e dunque annulla ogni possibilità di contraffazione perché la realtà è già di per sé un’illusione. Tocca perciò ripartire dalle basi, ovvero dalla fiducia tra gli esseri umani, quella che lega Hunt ai suoi agenti-compagni e ciò che resta delle autorità a lui.

 

 
L’inversione è soltanto apparente: come le alte sfere ricordano in più di una occasione, dopotutto, Hunt non ha mai seguito regole che non fossero le sue, quindi si tratta di lasciarlo fare, assecondarlo e dargli fiducia appunto, mentre crea una realtà propria. Così, mentre l’Entità di fatto è messa a latere – ricondotta al ruolo di puro mcguffin mentre a farne le veci “sul campo” è il super cattivo Gabriel – Ethan trasporta l’avventura in una ricognizione lungo l’immaginario sedimentato dall’attore-autore Cruise nel corso dei decenni. Non solo perché questa Missione “finale” (ma lo sarà davvero?) si ricollega a tutte le precedenti attraverso una serie di ritorni che danno l’idea di un insieme coeso, ma anche per le risonanze evidenti verso “l’armamentario” del Cruise-pensiero. Si va perciò dall’avveniristica tuta/esoscheletro che fa pensare a Edge of Tomorrow (qui usata per calarsi negli abissi), alla portaerei che rievoca Top Gun. Su tutto però prevale l’approccio umano di una storia che sia pura performance fisica, allineata in questo senso ai grandi visionari del cinema. La splendida sequenza nel sommergibile Sevastopol in tal senso è paradigmatica, aggiorna il modello di Uomini sul fondo di Francesco De Robertis e U-Boot 96 di Wolfgang Petersen, rivisitandolo attraverso la performance estrema sul corpo e sul metallo del James Cameron di The Abyss e Avatar: La via dell’acqua – l’eco del regista canadese si ritrova anche nell’idea dell’Olocausto nucleare evocato dalle folli azioni dell’Entità che rimandano a quelle dello Skynet di Terminator. E, allo stesso modo, l’altro grande action set piece della battaglia dei biplani sta fra le acrobazie di Jackie Chan e le ballerine sulle ali degli aerei del Carioca di Thornton Freeland.

 

 
Non a caso, l’avventura secondo Cruise è qualcosa a metà strada fra la performance avveniristica e il numero di danza e si riflette nella lotta tra l’atto fisico estremo dell’attore-stuntman alla Harold Lloyd o Buster Keaton e il mondo ipertecnologico dell’Entità. In questo senso, The Final Reckoning è tanto un blockbuster presente al nostro tempo dei deepfake e della virtualizzazione del mondo, quanto è direttamente collegato al cinema classico degli anni Trenta. Non a caso la saga era iniziata con un grande regista classico/postmoderno come Brian De Palma e viene portata avanti da un attore che riverbera, ultimo testimone di quell’epoca, la grandezza di un cinema-cinema che si identifica nell’allure divistico dell’interprete classico (“The Last Movie Star”, come spesso Cruise viene definito). Cruise ne è ben consapevole e connota quasi cristologicamente il suo percorso, agendo, morendo per poi risorgere mentre pone il suo corpo spesso nudo in ostensione allo spettacolo, ma mantenendo sempre costante la ricerca di una complicità con l’altro.

 

 
In fondo, la Missione Impossibile è una questione di squadra e legami sedimentati nel tempo, come quello con McQuarrie, che affastella in regia momenti eleganti e cerca di mantenere il ritmo sempre alto, favorendo però il “respiro” di ogni singola sequenza. O come avviene con il cast di supporto, presente alla missione ma capace di ottenere anche il suo spazio – dal commovente Luther di Ving Rhames, al buffo Benji di Simon Pegg, all’umana Signora Presidente di Angela Bassett (un what if di Kamala Harris se avesse vinto le elezioni? Siamo nel mondo dell’Entità dopotutto…). Resta invece inespressa la romance fra Hunt e la Grace di Hayley Atwell, come a volerci ricordare la natura fantasmatica dell’eroe che, pur nella fisicità estrema delle sue azioni, resta un corpo celibe e una pura “entità” cinematografica. Un agente invisibile che salva il mondo di “quelli che non conoscerà mai” e si rinnova ostinatamente come pura immagine-ombra sul telo del grande schermo.