All’inseguimento del tempo perduto: a Venezia82 George Clooney e Jay Kelly di Noah Baumbach

Viale del crepuscolo, ovvero tutte le controindicazioni dello stardom in fase declinante applicate a George Clooney, la star per eccellenza della Hollywood del ventunesimo secolo. A metterle in commedia è un indipendente abbastanza integrato come Noah Baumbach, giunto infine alla corte di Netflix. Ecco Jay Kelly, singolare film simbionte, che lavora di travaso finzionale tra la star e protagonista: l’uno in sovrimpressione sull’altro, doppia esposizione di un divismo – quello incarnato come pochi oggi da George Clooney – che nutre l’immagine e l’immaginario mentre si nutre di realtà e immaginazione. Se alla regia ci fosse stato uno come Soderbergh avremmo avuto più o meno un capolavoro, ma dietro la macchina da presa di Noah Baumbach c’è Netflix e il risultato è una sorta di stream(ing) of consciousness che sta addosso alla star eponima, Jay Kelly, incarnata da George Clooney. Il quale ovviamente ci mette tutta la sua verve simpatica, la classe piaciona, l’inossidabile eleganza, la sorniona furbizia che lo caratterizzano, prestati alla sua controfigura nel film per raccontare la classica crisi di fine mezza età del divo che inizia a fare i conti con le carenze della sua vita privata.

 

 
Intriso di successo e di tutti i suoi vezzi, Jay Kelly inizia a sentire il fiato sul collo delle responsabilità relazionali e affettive mancate, in famiglia come nel mondo che lo circonda: appena morto sul set di un noir, il suo amico, confidente e agente Ron (Adam Sandler) vorrebbe già spedirlo sul set del nuovo film di una quotatissima coppia di fratelli registi, ma lui vuole passare del tempo con la figlia diciottenne, che è in partenza per l’Europa. Il dissidio tra vita reale e vita del cinema è un po’ il nodo della sua crisi: Jay si è talmente identificato nel suo lavoro da aver perso il contatto con la propria persona e il gioco scenico si sovrappone spesso alla realtà in cui è calato, in uno slittamento di piani tra realtà e memoria che costituisce lo schema in verità un po’ meccanico del film. Per risarcire il tempo perduto della vita, Jay decide allora di accettare l’omaggio che vuole tributargli un festival toscano, sale sul suo jet privato assieme a Ron e a Liz, la sua addetta stampa interpretata da Laura Dern, e vola a Parigi, per raggiungere la Toscana viaggiando in seconda classe sullo stesso treno diretto in Italia su cui viaggia anche la figlia con gli amici.

 

 
Intanto si gode il bagno di fan e lascia scivolare la memoria sui ricordi attivati dall’incontro con un vecchio amico, che ancora gli rimprovera di avergli rubato la carriera partecipando assieme a lui a un importante provino. Noah Baumbach ovviamente lavora di fino sul gioco delle insicurezze personali che scavalcano il luogo dell’arte, creando un varco nostalgico nella ritmica da commedia dei caratteri che lascia scorrere prevalentemente, soprattutto nella parte italiana, fin troppo pronunciata per non incorrere nel macchiettismo dei personaggi (Alba Rohrwacher compresa). Il film ha una semplicità a tratti disarmante ed è un peccato perché il gioco simbiotico su una presenza attoriale determinante come quella di George Clooney era un’ottima idea. Alla fine dei conti, Jay Kelly è poco più del classico film che nutre il mito del successo, negando soluzioni alternative a quelle che conducono all’assunzione del sensi di colpa e della nostalgia da parte del protagonista.