Il Grande Nulla: Springsteen e Nebraska

I fan di Bruce Springsteen arrivano al termine del 2025 un po’ stremati – anche economicamente. Un tour, sette album inediti raccolti in Tracks II e la riedizione di Nebraska contenente gli outtakes, il leggendario Electric Nebraska, il disco originale rimasterizzato e un altro film, Nebraska – Count Basie Theatre di Thom Zimny, esecuzione in presa diretta di tutto l’album con Bruce in un teatro vuoto con minimale accompagnamento di Larry Campbell, storico chitarrista di Bob Dylan, e Charlie Giordano alle tastiere. Per inciso: una performance magnifica. Springsteen – Liberami dal nulla di Scott Cooper racconta la travagliata lavorazione di Nebraska, disco pubblicato nel 1982, spartiacque tra The River (1980) e Born in the U.S.A (1984) ma non una rivoluzione nella carriera del Nostro quanto, piuttosto, come dice Jon Landau (Jeremy Strong) nel film, una deviazione. Cooper si concentra sul malessere di un rockwriter che ha appena piazzato un primo brano nella top 10 (Hungry Heart, originariamente scritto per i Ramones) e sta per diventare una star a livello mondiale, specie dopo il trionfo del tour europeo di The River, la cui tappa di Zurigo dell’11 aprile 1981 rappresentò per una generazione di fan italiani il vero imprinting. E invece no: travolto dalla depressione, Bruce si chiude in una casa affittata a Colts Neck, New Jersey, lascia l’amico producer e manager Landau nelle grinfie della CBS e si mette a registrare con due microfoni, un’armonica e una Gibson J-200 acustica su un TAEC a 4 piste con il solo aiuto del tecnico Mike Batlan (Paul Walter Hauser nel film). 15 brani in 18 giorni, dal 17 dicembre 1981 al 3 gennaio 1982.

 

 
I 5 non inclusi nell’album sono Born in the U.S.A, Downbound Train, Losin’ Kind, Child Bride e Pink Cadillac. Successivamente Bruce raggiunge il Power Station studio di Tony Bongiovi, cugino di Jon Bon Jovi, dove Landau, Chuck Plotkin (Marc Maron), Toby Scott e la E-Street Band lo aspettano per registrare il nuovo materiale. Tra aprile e maggio di quell’anno vengono incise le versioni elettriche di tutte le canzoni di Nebraska tranne State Trooper (di cui consiglio caldamente la versione dub contenuta in quel grande film che è Un sapore di ruggine e ossa di Jacques Aurdiard) Used Cars e My Father’s House. Ma in quei due mesi e poco più nello studio di Bongiovi a Manhattan, dove videro la luce dischi immortali come Making Movies dei Dire Straits, Let’s Dance di David Bowie, Infidels di Bob Dylan e lo stesso The River, sono registrate le versioni definitive di 6 canzoni poi destinate a Born in the U.S.A. comprese la title track, I’m On Fire e Glory Days. Il film si concentra su un processo creativo tormentato, sui rapporti personali tra Bruce e chi gli sta intorno, sulla sua storia d’amore con Faye Romano (Odessa Young) e infine sulla decisione di trasferirsi a Los Angeles, dove nel garage della nuova casa registra (non benissimo, ora è tutto in uno dei sette album di Tracks II), di nuovo in solitudine, altri 18 brani tra i quali mi piace citare la versione più lunga e non definitiva di quella che è da sempre una delle mie canzoni preferite di Bruce, Shut Out the Light. Ma anche County Fair, la cui ispirazione venne durante la tappa texana di Lubbock del suo viaggio in macchina con Matt Delia interpretato nel film da Harrison Gilbertson.

 

Springsteen – Liberami dal nulla (2025) di Scott Cooper

 
Scott Cooper li sa fare, film come Springsteen – Liberami dal nulla, lo ha dimostrato con Crazy Heart (2009), ma questa volta l’equilibrio è molto difficile da mantenere, il libro di Zanes è complesso, non è un biopic ma il racconto di un momento di crisi personale e di una rinnovata forza creativa che portarono alla composizione di un disco straordinario e allo stesso tempo la fotografia di un’epoca storica del rock’n’roll, quella delle band, che va a chiudersi per spalancare le porte al salto nel buio industriale che durerà fino all’avvento del digitale e all’estinzione dei supporti. È carsico e stratificato il materiale narrativo di Zanes, che prima di essere giornalista musicale è stato il chitarrista della band fondata da suo fratello Dan, i Del Fuegos, quindi parte in causa (benché molto giovane, ma fu reclutato nel combo ad appena 17 anni) di quel movimento che tra la metà degli anni 70 e i primi anni 80 riscrisse letteralmente, e dal basso, tutti figli della classe operaia i protagonisti, la storia del rock americano. Le pagine più belle del libro sono quelle che parlano della scena di New York nei primi anni 80, di Scott Kempner o della scoperta di Nebraska da parte di Dave Alvin (sentite Thirty Dollar Room del chitarrista dei Blasters, e ditemi se non può che essere il frutto di quelle notti di ascolto). Sogni e speranze di gente che incrociava Springsteen nei corridoi degli studi di registrazione e spesso trovava in lui complicità inattese, come nel caso di Alan Vega dei Suicide.

 

Springsteen – Liberami dal nulla (2025) di Scott Cooper

 
Tutto questo nel film non c’è, e forse era impossibile che ci fosse. Cooper, anche sceneggiatore, lascia aleggiare lo spirito del tempo ma si concentra sui personaggi, gli snodi narrativi si fanno ampiamente romanzeschi, melodrammatici, tutto il rapporto col padre (Stephen Graham) o quello con Faye (lei tra le figure migliori del film) sono funzionali alla crisi del musicista e alla conseguente elaborazione creativa (non basteranno le canzoni però, alla fine Bruce capitolerà e dovrà farsi aiutare da uno psichiatra, del resto, come scrive lui stesso, «ho sempre pensato che gli artisti del rock’n’roll fossero uomini disperati»). Al cineasta il merito di avere reso molto bene un paio di momenti chiave. Penso alla sequenza di ascolto del disco dei Suicide, in particolare il brano assassino Frankie Teardrop. Anni dopo Bruce concluderà tutti i concerti del Devils and Dust Tour (2005) con un altra canzone dei Suicide, Dream Baby Dream, infine incisa nell’album High Hopes (2014). E non è male il dialogo visivo tra Springsteen e La rabbia giovane di Terrence Malick (Badlands, 1973) la cui visione porterà alla composizione della canzone che dà il titolo al disco, originariamente chiamata Starkweather dal cognome del killer senza causa interpretato da Martin Sheen, specie per il passaggio dal We al Me così importante per comprendere l’anima intima e oscura di Nebraska.

 

Springsteen – Liberami dal nulla (2025) di Scott Cooper

 
Scott Cooper ha quindi fatto tutto quello che probabilmente era possibile fare con un materiale di partenza così complesso, gliene va dato atto senza per questo edulcorare le riserve nei confronti di un film che è soprattutto didascalico, senza sorprese, con un interprete, Jeremy Allen White, anch’egli come il regista animato dai migliori propositi e probabilmente anche di talento (non so dire di più non avendo mai visto la serie The Bear per la quale è famoso) ma imprigionato in una postura curva da depresso che pare appunto uno stampino. Bravo senz’anima mi verrebbe da dire. La performance di un attore che interpreta un tizio fermo alla superficie di Bruce Springsteen, senza neanche tentare di elaborarlo al di là della scontata imitazione, è straniante. E per estensione, è bello senz’anima il film, forse proprio per l’assenza dell’ampio scenario del libro o del cuore nero di un tormentato romanzo musicale per cogliere il quale, davvero, basta il disco.