Battle virale. Squid Game – il successo planetario targato Netflix

Chi frequenta social come Instagram e Tik Tok avrà notato la comparsa di numerosi filmati in cui i protagonisti cercano di ritagliare con un ago una formina fustellata in un dischetto di caramello. In qualche caso, la formina si rompe provocando l’irruzione in scena di un personaggio armato di mitra, vestito con una tuta rosa e una maschera nera con un triangolo che apre il fuoco. Quella che pare la moda del momento tre origine dalla seri TV del momento, Squid Game di Hwang Dong-Hyuk, trasmessa su Netflix. La trama racconta di una competizione composta da diverse sfide ispirate ai giochi dell’infanzia, come il tiro alla fune, che prevedono l’avanzamento del turno per chi vince e la morte violenta per chi perde. In palio c’è una somma astronomica che aumenta con l’aumentare dei cadaveri che rimangono sui vari campi da gioco. E fin qui niente di nuovo sotto il sole, a una prima occhiata parrebbe quasi di trovarsi di fronte a un clone di Battle Royale in salsa coreana. Eppure, Squid Game è una delle serie più viste della piattaforma, un successo che cresce ogni giorno e pare stia entrando nell’inconscio collettivo al pari di La casa di carta. Perché?

 

 

Sicuramente l’estetica della serie coreana, non dissimile da quella della sua controparte spagnola, gioca il suo ruolo. Il rosa delle tute delle guardie in contrasto con il verde acqua delle tute dei giocatori, lo stanzone con i letti a castello, l’enorme porcellino che pian piano si riempie di banconote e i campi da gioco che ricordano i giardinetti pubblici creano un’ambientazione molto forte a livello visuale, che ha gioco facile a imprimersi nella mente dello spettatore. Eppure non basta. Un altro elemento è di certo la critica sociale che, rispetto a tante produzioni simili, ha una sfumatura di complessità in più. I giocatori, infatti, non sono solo volontari, ma decidono di riprendere il gioco dopo aver sfruttato la possibilità di abbandonarlo una volta. Come da regolamento, i giocatori votano per interrompere il gioco e tornano alle loro vite. Che sono vite di merda, ma solo dopo aver giocato, con la possibilità di vincere un patrimonio che potrebbe cambiargliele, si accorgono di quanto facciano schifo e di quanto siano senza uscita. Il protagonista, Gi-Hun, ne è l’esempio più chiaro: padre separato la cui moglie dopo essersi risposata sta per trasferirsi in America con la figlia, incapace di mettere insieme il pranzo con la cena senza l’aiuto di una madre anziana costretta a lavorare anche per lui nonostante le condizioni di salute precarie, giocatore d’azzardo tormentato dai debitori che minacciano di farlo letteralmente a pezzi. Come lui, tutti i giocatori hanno delle motivazioni simili, magari non sono tutti falliti terminali ma comunque conducono vite che, a ragion veduta, vogliono cambiare a costo di affrontare il rischio.

 

 

Questo aggiunge una sfaccettatura alla classica metafora già vista del capitalismo come competizione spietata. La scelta di partecipare, così subdolamente indotta da conservare soltanto l’illusione di una libertà vera e propria, aggiunge una componente di partecipazione da parte dei concorrenti al proprio destino, per nefasto che sia, che li rende vittime ma solo fino a un certo punto. Una sindrome di Stoccolma indotta o, forse, quella componente minimale di libero arbitrio che porta i protagonisti di Squid Game a compiere quell’ultimo passo oltre il baratro di loro spontanea volontà di modo da essere, in definitiva, complici della loro stessa fine. E non importa se tutto è un gioco perverso organizzato da qualcuno che lo ha messo in piedi, la firma sulla loro condanna a morte la mettono i giocatori stessi, in doppia copia. Poi, certo, la serie è scritta bene, la caratterizzazione dei personaggi funziona e rende reali nel bene e nel male le loro scelte, il meccanismo della narrazione è accattivante, insomma il prodotto c’è in tutto e per tutto ma quello che dà a Squid Game una marcia in più è una critica sociale tanto azzeccata quanto scomoda, perché nella visione del mondo rappresentata nella serie è tanto facile quanto doloroso identificarsi. Parla di noi con una precisione che fa male.