Le cinque stagioni della serie TV Netflix Peaky Blinders, che dovrebbero arricchirsi, secondo le notizie, di almeno altre due stagioni, nascono dalla creatività di Steven Knight, regista e sceneggiatore originario di Birmingham. Knight, noto per avere diretto Locke, per la sceneggiatura di Piccoli affari sporchi di Frears, di La promessa dell’assassino di Cronenberg e di Allied un’ombra nascosta di Zemeckis, tanto per citare i titoli più noti, ha anche prodotto la serie attingendo alla vera storia del sodalizio criminale attivo nella sua città all’inizio del secolo scorso. Il nome pare derivasse dalla caratteristica che distingueva i suoi partecipanti, che era quella di portare nella cucitura della visiera del cappello una lametta. Il cappello diventava così un’arma contro i nemici. La banda viveva di piccoli racket e di quel malaffare spicciolo, ma nulla a che fare con la storia ingigantita proposta dalla serie TV che vede protagonista la allargata famiglia Shelby. Scommesse clandestine sui cavalli e piccoli commerci proficui permettono agli Shelby di scalare i gradini sociali e diventare una piccola, ma solida holding che maneggia droga, scommesse lecite, attività commerciali per ripulire il denaro proveniente dal malaffare, in più un proficuo commercio di alcolici con l’America del proibizionismo, sono i capisaldi sui quali Thomas e la sua famiglia fondano le proprie fortune. Ma Thomas è un uomo moderno, antesignano dell’uomo d’affari del secolo appena iniziato e quindi anche vittima di angosce personali. L’inguaribile trauma per la guerra combattuta dentro i cunicoli sotterranei della Francia non lo abbandona mai, non sa dimenticare e sembra rimasto intrappolato in quei sotterranei.
I registi che si avvicendano e la scrittura puntuale e profonda sanno fare emergere l’angoscia del personaggio interpretato con convinzione da Cillian Murphy, che sa trasferire al suo personaggio quella forza di volontà propria degli (anti)eroi. È così che Thomas diventa un leader capace di guardare lontano, astuto e abile nel prevedere le mosse dei suoi avversari, che sa stringere alleanze senza mai perdere di vista il proprio obiettivo, che sa punire e premiare, dotato di una infinita pazienza nel ricomporre i dissidi, siano familiari o meno, ma che sa anche essere spietato davanti al tradimento, diviso tra un passato di non nobili origini ed un futuro che si è costruito sotto la cupa ombra di quel passato. Da dove cominciamo, quindi, per riflettere un po’ sul lavoro di Steven Knight che ha l’ambizione di offrire un racconto epico di un antieroe moderno, pienamente calato in quella suggestiva epoca del primo novecento postbellico, in cui il non immaginabile futuro e il presente, così difficile, convivevano manifestandosi grazie alle luminose epifanie di un progresso che non si sarebbe più arrestato. Un tempo durante il quale la guerra, le automobili, l’industria e la più nera miseria delle classi operaie, disegnava in Europa uno scenario di ribollenti passioni, tra cui quella della scoperta della politica e delle filosofie che ne dettavano le dottrine. Da dove cominciamo quindi? Dalla storia affascinante di una famiglia, una genia di naturalmente cattivi come gli Shelby, discendenti da una stirpe di zingari dai quali hanno ereditato uno straordinario intuito e una solidarietà che salva dai colpi bassi della vita. Gli Shelby sanno trovare la solidarietà anche nei sopiti dissidi, incapaci a rompere i legami di sangue e la loro intima natura ribelle. Resteranno sempre ciò che sono con la forza e il coraggio dei combattenti.
È in questa congerie di sentimenti, di profili umani sfaccettati che troviamo la rigorosa e variegata costruzione della psicologia dei personaggi tutti dentro le logiche di un antieroismo che li svuota di ogni epica, nel rispetto di una rilettura complessiva della stratificazione sociale dell’epoca e della borghesia come aspirazione massima delle classi inferiori. Steven Knight che scrive, sa trasporre nel suo cinema televisivo questa modernità interrotta dalle vicende malavitose della famiglia. In queste storie convivono una sorta di sottile angoscia e il senso di una finitezza che sanno raccontare lo scrutare l’inconscio e le sue sovrastrutture, secondo la scienza di moda del tempo. È in questa sovrapposizione di temi, celati dentro una veste da educazione criminale, che Peaky Blinders sa rendere, il tempo dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione dentro le quali crebbe il capitalismo con la sua scia di sfruttamento del lavoro. La nascita delle idee socialiste, che Thomas Shelby, il protagonista, abbraccerà per adesione ad un originario sentimento di uguaglianza, costituisce l’opposta direzione in cui viaggia quella parte di popolazione senza aspirazioni, ma con una gran voglia di rivalsa. È l’intera operazione a sapere quindi mettere in luce i temi complessi di questa incipiente modernità. Un lavoro narrativo, ma anche di pura e polivalente messa in scena con i suoi chiaroscuri insistiti, con la sua fotografia carica e satura, arricchita da una profondità di campo insistita con i suoi controluce evocativi, con i suoi spazi aperti e i fasci di luce che gettano prospettive sinistre e protettive, come un vero occhio luminoso sul mondo, con la sua forza narrativa che sembra travalicare i termini di una semplice progressione di eventi, trova in questa metanarrazione il tratto più originale della sua spettacolarità.
Un lavoro sottile e di uguale valore è quello condotto sulle scelte musicali. Una colonna sonora che sembra avvolgere la storia offrendo nuovi e differenti valori perfino alla singola immagine, in quell’anti epica che finisce con lo sfiorare l’epica vera. Una musica sofisticata che da Nick Cave a quella indie rock dei Raconteurs, fino alle sfumature vocali di Tom Waits o Are Brun o alle dure note del country rock di Dan Auerbach e poi ancora il rock britannico dei White stripes, dei Royal blood o degli Artic Monkeys, o il rock dei Queen, di David Bowie o dei Radiohead, diventa una accurata selezione che gioca sul contrasto d’epoca, riscoprendo in quelle armonie musicali una straordinaria affinità con la sotterranea potenza visiva della storia. Poi c’è il puro profilo narrativo quello dell’ascesa mafiosa e malavitosa di una famiglia inglese, maturata nella Birmingham operaia di inizio novecento, non troppo dissimile dalle nostre Gomorra, fatte le dovute differenze d’epoca e di culture. Un’ascesa che trova proprio negli italiani, in quei siciliani archetipo di una mafia originaria, gli avversari più tenaci e imprevedibili. È in questo clima che la storia, durante le cinque stagioni finora realizzate, sa esprimere progressivamente l’atmosfera che si fa cupa con il passare del tempo, complici i chiaroscuri degli interni sommersi dal calore confortante dell’ebano dei mobili d’epoca e dalle magnifiche librerie che occupano intere pareti e adornano le ampie stanze e i pavimenti ricoperti dai tappeti o dal legno lucido perfettamente intonato con le poltrone e i divani di pelle. È una scenografia che restituisce il senso di una ricchezza acquisita, ma contrasta con quella vita dedita al male. La storia di Peaky Blinders abbraccia gli anni che vanno dal 1919 al 1930 in quella Birmingham così malsana che rappresenta la modernizzazione industriale della Gran Bretagna, nodo cruciale di scambi e commerci, in cui trovano spazio il primo capitalismo e il primo socialismo.
Tutti temi che incrociano le vicende dell’ascesa e delle fortune e delle sfortune della famiglia Shelby e del suo leader incontrastato e riconosciuto, Thomas, esempio perfetto, di quella solidarietà familiare che regge il malaffare nonostante i dissidi e le soffocate gelosie. Thomas sa governare con la saggezza del leader il ribollente ambiente domestico in cui la fascinazione del denaro e le infinite possibilità di riprodurlo con progressioni geometriche, rompe equilibri disarticolando le gerarchie. Immerso in un’atmosfera prettamente inglese, in cui perfino il tempo atmosferico sa farsi elemento del racconto, pieno di colpi di scena e tragicamente venato dalla ambizione familiare che si riflette sotto forma di dominazione anche nei rapporti tra i sessi, con una vena di insistita sensualità, la storia sembra svolgersi in un inverno perenne, rimarcando la malinconica consistenza di quella stagione. È in queste atmosfere brumose che si agita l’anima inquieta di Thomas Shelby, che alla guida della famiglia, nel rituale malavitoso valido dovunque, comincia con il regolare i torti nel piccolo universo di Small heath, il povero e malfamato quartiere a sud est di Birmingham dove ha inizio la storia di Thomas, Arthur, Ada, John, Finn e della loro tutrice e vero motore di ogni decisione, Polly Grey, zia dei fratelli Shelby. Polly, regina zingara, con un passato molto duro alle spalle e due figli tolti alla sua potestà, coltiva desideri di rivalsa, sa mettere a frutto l’intelligenza e la visione d’insieme della sua famiglia. Il primo risultato sarà quello di riconquistare uno dei figli che le sono stati tolti. Polly e Thomas, sanno ristabilire gli equilibri, rimettere in piedi la famiglia dopo le avversità familiari ed economiche, le morti violente per vendetta. Lo spessore dei personaggi e la complessiva struttura scenica di questa lunga e sorprendente narrazione, conferiscono ad ogni singolo episodio una efficacia non comune che sa farsi eco di uno sguardo complessivo sull’epoca. In questi termini era accaduto solo, a nostra memoria, con The Knick la breve serie di Steven Soderbergh ambientata in un ospedale della New York dei primi del secolo. Peaky Blinders sa quindi farsi dramma universale e affresco d’epoca, sguardo ampio sulla contemporaneità della narrazione e scandaglio coraggioso di ciò che è il male coniugato al bene. Un cinema sulla indistinguibilità del bene dal male, del sacrificio dalla vittoria.