20) THE MEN – New York City (Fuzz Club)
Dal proto-punk all’avant, una sorta di manuale musicale incendiario e contemporaneo (proprio perché totalmente fuori dal tempo) di tutta la musica che ha reso la Grande Mela un punto di riferimento per cinque decenni, dal CBGB’s a scendere.
19) LANKUM – False Lankum (Rough Trade)
Se esiste una via non reazionaria al folk, oggi, è quella che esce da questi solchi. Dove la tradizione più pura incontra la drone music, incrociandola filosoficamente a doom e black metal e affogando il tutto nel rumore bianco più annichilente, metafora di tempi oscuri e disperati.
18) NATALIE MERCHANT – Keep Your Courage (Nonesuch)
Sono passati tanti anni dagli esordi dei 10,000 Maniacs, ma quella fiamma arde ancora: nella misura di una inevitabile, perfetta maturità. Sulla carta pericolosa, ma nei fatti toccante, necessaria e politica. The Feast of Saint Valentine è la (forma)canzone più bella dell’anno.
17) GEIST – Blueprints to Moderate Sedation (autoproduzione)
L’hardcore, schiacciato in un angolo dai tempi, rialza la testa. Una band inglese semisconosciuta lo rivitalizza canalizzando la rabbia in iniezioni crust, tra echi distorti di punk primigenio e una furia che mancava al genere da decenni.
16) YOUTH LAGOON – Heaven Is a Junkyard (Fat Possum)
Non è una band, è un uomo solo: Trevor Powers. Isolazionismo malinconico, la ricerca di un posto sicuro in un mondo impazzito: tra dreampop diy, ballate che strappano il cuore (Idaho Alien), loop ritmici e falsetti. Un bric-à-brac che in mani altrui sarebbe stucchevole o coi limiti “da cameretta”. Nelle sue, no.
15) IGLESIA ATOMICA – Los Demonios Andan Sueltos (autoproduzione)
Da oltre trent’anni, una leggenda (in patria: Porto Rico) dello psych-stoner che quasi nessuno si fila oltreconfine. Peccato. Ennesimo tassello di una discografia nutritissima (26 album) e resistente. Come sempre in bilico tra rock cosmico e (vera) tradizione caribeña.
14) SILVER MOTH – Black Bay (Bella Union)
Un progetto del chitarrista dei Mogwai, Stuart Braithwaite, che coinvolge anche la cantante scozzese Elisabeth Elektra e Matt Rochford degli sperimentali post-punk Abrasive Trees. C’è ancora vita per il post rock? Forse no. Ma bastano poche note dell’iniziale Henry per essere inchiodati in un altrove in cui sembra che, appunto, i Mogwai si pieghino allo shoegaze facendo risorgere i Portishead (!). E il resto non è da meno.
13) QUIET MAN – The Starving Lesson (Riff Merchant)
Esordienti, da Philadelphia. Una voragine di oscurità strisciante, come una declinazione ancora più nichilista e spaventosa dei Neurosis di Times of Grace affogata nello sludge melvinsiano che fu degli Eyehategod. Solo per sistemi nervosi stabili.
12) CHILD – Soul Murder (Child Music)
Vi abbiamo già detto tutto qui [#1 BOOMERang ]. Non c’è altro da aggiungere.
11) DEAD FEATHERS – Full Circle (Ripple)
Psichedelia con fondamenti hard sfumati. In linea con band come Blues Pills o Heavy Feather, ecco un’altra vocalist pazzesca come la chicagoana Marissa Belu, una Grace Slick del nuovo secolo. Quei dischi così perfetti nella loro inattualità da non sapere nemmeno di esserlo.
10) IAH – V (Independiente)
L’Argentina è il vero paradiso del rock retrocreativo contemporaneo. E gli IAH, trio strumentale heavy/psych con influenze prog e post-rock, al quinto lavoro, sbaragliano ogni concorrente. Tutto già sentito, può darsi. Ma va bene così.
9) COMPLETE MOUNTAIN ALMANAC – Complete Mountain Almanac (Bella Union)
Dodici canzoni, una per ogni mese dell’anno. Rebekka Karijord e Jessica Dessner (sorella di Aaron e Bryce, vedi The National) si avventurano in un concept figlio di dolori privati (una diagnosi di cancro) e urgenze eco-contemporanee (il cambiamento climatico). Il risultato, in potenza rischioso e retorico, è una collezione di incanti melodici di folk acustico da camera occasionalmente squarciato da aperture orchestrali. Un disco magico, struggente, che somiglia a tutto e a nulla.
8) STONED JESUS – Father Light (Season of Mist)
Sono di Kiev, hanno più di dieci anni di carriera alle spalle, fanno una specie di psych/stoner dai tratti metal-ossianici. Ma la loro (nuova) poetica è racchiusa nei quasi dodici minuti di Season of the Witch, un pezzo che parte come una outtake dei Black Sabbath di Vol.4 e poi si sfrangia in cellule di prog e aperture spacey. Ho detto abbastanza.
7) CHEATER SLICKS – Ill-Fated Cusses (In the Red)
Boston, 1987. I Cheater Slicks. Boston, 2023. I Cheater Slicks. A undici anni di distanza dal loro ultimo album, ma è come se fosse passato un giorno. Da quello, dal loro esordio On Your Knees (1989), dal loro capolavoro Forgive Thee (1997), ovvero lo Zen Arcade del garage/blues/punk più sgangherato, incompromissorio e lo-fi, a cui questo disco somiglia moltissimo. Immutabili, inimitabili.
6) ISLAND OF LOVE – Island of Love (Third Man)
Vale quello che abbiamo detto per i Child. Trovate tutto qui [#1 BOOMERang]. E che non esistano già più è davvero triste.
5) MADAME – L’amore (Sugarmusic)
Vi vedo che sbarrate gli occhi. Ma la profondità di scrittura (poetica e musicale) di questo disco, al di là dei paragoni da clickbait (non del tutto ingiustificati, mutatis mutandis) con Fabrizio De André, è stupefacente. E che il futuro della (defunta) canzone d’autore italiana non passi da qui è palese. Per fortuna. Perché Madame (22 anni a gennaio) è altro: datele tempo.
4) LANDOWNER – Escape the Compound (Born Yesterday)
Indescrivibile. Un disco sostanzialmente post-punk (malgrado il significato del termine sia ormai sostanzialmente vuoto), che finge di stare in un presente impossibile (tra virate elettroniche e balbettii rabbiosi à la Sleaford Mods) ma che affonda le sue radici nel passato tra sbraiti e nervosismi wave, colate di Melvins “ripuliti”, angolarità eretiche tra Devo e (!) B-52’s. Per pochi. Ma enorme.
3) GODSLEEP – Lies to Survive (Ouga Bouga and the Mighty Oug)
“Come se gli X facessero heavy psych?”. La domanda è del venerabile Claudio Sorge, faro della critica rock italiana, e non avrei saputo porla meglio. Sono greci, i Godsleep. E la loro “nuova” cantante Amie Markis ne ha quadrato il cerchio raffinando la composizione di brani che si muovono con leggerezza e orecchiabilità tra alt e hard rock, tra memorie del miglior grunge e radici (adottive) di punk losangelino tardo-Seventies. Etimologicamente piacevole.
2) KILLER KIN – Killer Kin (Dead Beat Records)
Allora. Dal nulla. Come sempre. Come nella leggenda. Ventenni del Connecticut, petto nudo, short leopardati e capelli da headbanging, che vivono in un’intercapedine del Tempo dove MC5, Motörhead (ehm), New York Dolls, Cramps dei primordi e soprattutto e su tutto gli Stooges di Raw Power sono ancora all’ordine del giorno. Chitarre distorte in overdrive su martellamenti di ritmica incessanti e sguaiati. Perdenti totali. Praticamente, musica classica.
1) MARTHE – Further in Evil (Southern Lord)
Ovvero Marzia Silvani: italiana, antifa, femminista. Una one woman band, cooptata da un’etichetta storica della musica più oscura e pesante (Khanate, Sunn O))), Boris, Wolves in the Throne Room eccetera). Un album di debutto che spezza il fiato in gola: tra goth e black metal, disperazione doom e voce che si inerpica tra asprezze growl. Il primo brano, I Ride Alone, è una dichiarazione d’intenti chiarissima, una furibonda messa pagana. Il resto si dipana in una lucida e variegata rappresentazione del dolore, con un unico momento di rilascio, l’invocazione conclusiva di Sin in My Heart, tra droni ambient, tastiere docilmente martellate e una sorta di riconciliazione in exitu. Ostico, eppure accessibilissimo.
In apertura un’immagine di Marthe.