Sono le 21.30 di sabato 21 giugno: di lì a poche ore i B-2 statunitensi daranno sfogo a tutta la follia del mondo attuale e attaccheranno a Fordow e Natanz in Iran, intanto sulla Rotonda del Lungomare di Taranto settemila persone sono raccolte davanti a un palco che si oscura e lascia scorrere sul megaschermo le interferenze elettroniche di oppiacee news gossip con cui i media stordiscono quotidianamente il popolo. La frequenza elettronica vibra nello stomaco e trattiene il respiro dell’attacco al potere dei signori del mondo che da quel palco verrà sferrato nei successivi novanta minuti: al Medimex 2025 vanno in scena i Massive Attack ed è un evento musicale (memorabile!) che tra beat, vocalizzi e tante immagini produce senso, quindi pensiero, dunque dissenso… Non un semplice concerto, quello che si è visto a Taranto, ma un atto scenico di consapevolezza politica collettiva, un bagno dolente e straziato nello stream of unconsciousness in cui il mondo è immerso in questi anni. Gaza nei cuori, ovviamente – sulla Rotonda del Lungomare tarantino scorrono bandiere palestinesi e a un certo punto dal palco sarà Robert “3D” Del Naja (ricordando la lingua dei suoi genitori) a scandire in un bell’italiano: “Siamo tutti bambini di Gaza!”.

Ma non crediate che sia stata questione di classica azione e interazione tra palco e scena (quella il Medimex 2025 la aveva offerta abbondantemente e splendidamente la sera prima, con la magnifica St. Vincent e a seguire i Primal Scream): stasera il palco sembra un grumo di pensiero politico che si mostra in tutta la sua lucidità e arriva diretto, senza mediazioni spettacolari, pulito e essenziale come un segno: questione di mittente e destinatario, con in mezzo quella cosa fantastica che è la comunicazione. Non è un concerto, quello al quale abbiamo assistito a Taranto, ancor più se lo si racconta col senno delle ore successive, avendo negli occhi le immagini del vero clear and present danger di questo momento, il duetto di follia nazistoide eseguito davanti al mondo dalla coppia Trump/Netanyahu, con Putin e un’altra bella schiera di dittatori a far da coro. Non un semplice concerto: più che altro, la sensazione che si aveva era quella di essere in un fermo immagine sull’orrore del presente, come fossimo tutti lì, freezati dai Massive Attack in un attimo lungo novanta minuti e una quindicina di brani intrecciati al flusso di immagini che, ancor più e ancor prima del tradizionale gioco scenico delle luci (nei cromatismi, dominanti rosse, blu e di un bianco accecante), costruiva le pulsioni del palco e dettava le pulsazioni agli spettatori. Il tutto guardando all’agenda di un mondo in guerra, impazzito, demistificato nella sua illusione di progresso.

In scena il Wild Bunch, il “mucchio selvaggio” di Bristol, sferrava il suo attacco massiccio a un mondo evidentemente fuori controllo: nelle immagini che vanno sullo schermo c’è spazio per ogni assurdo schema di dominio spacciato per libertà: per i complotti e i complottismi e le loro teorie, l’infanzia sfruttata nelle miniere di cobalto del Congo, le immagini di repertorio maoiste, le smorfie dementi di Trump e gli esperimenti neuronali sugli scimpanzé di Musk, per quella perfetta controfigura hitleriana che è Netanyahu (ben accolto da un florilegio di dita medie levate al cielo…), le guerre, i bombardamenti, le popolazioni che soffrono, le strade di Gaza e di Odessa e le loro macerie, i mercanti d’armi britannici… Il messaggio deve essere chiaro e non a caso i Massive Attack portano i loro reels nei vari paesi con le didascalie tradotte. Certo, fa una strana impressione pensare che settemila persone portano all’unisono il ritmo contro le guerre, contro i fascismi e le follie del mondo, in una rotonda nella quale 33.159 giorni prima (era il 7 settembre del 1934) un’altra folla inneggiava a Benito Mussolini, che a Taranto inaugurava quel Palazzo del Governo che oggi sta lì a guardare di sbieco palco. Sarà per questo che il concerto tarantino dei Massive Attack ha qualcosa di speciale, perché questa è una città molto bella e altrettanto disgraziata, in cui i contrasti stridono in maniera assordante. Una città di mare e di sole, di porti e di industrie, proprio come la Bristol dei Massive Attack, che di sicuro hanno colto il dettaglio delle ciminiere dell’acciaieria che si stagliano all’orizzonte. Ma anche una città militare (con una base Nato che se ti sporgi dalla ringhiera di questa Rotonda riesci pure a vederla, lì a 10 chilometri a sud…), una città-laboratorio ieri come oggi, in cui bisogna tenere sempre alta la guardia della consapevolezza sociale.
E allora, in questa Taranto un concerto che è un atto di coscienza politica ci sta perfettamente. Una quindicina di brani, si diceva: la play list ha lavorato nelle trame della loro carriera, con molto Blue Lines e Mezzanine (primo e terzo LP in studio): si apre e si chiude con In My Mind (che cita Gigi D’Agostino…) e ci sono Risingson, Girl I Love You, Black Milk, Take It There, Futureproof sino a Song to The Siren, vero e proprio turning point del concerto, con Liz Fraser che vocalizza mentre sullo schermo scorrono il Cocteau di Orfeo e il Vigo de L’Atalante intrecciati alla follia del mondo contemporaneo. E poi Inertia Creeps, Rockwork, Angel, Safe From Harm, Unfinished Sympathy, Avici Segue, Teardrop e Group 4. Quanto alla lineup con cui il collettivo di Bristol si è presentato sul palco tarantino, oltre a Robert “3D” Del Naja e Grant “Daddy G” Marshall c’erano Horace Andy, Deborah Miller, la citata Liz Fraser, Euan Dickinson, Julien Brown, Damon Reece, Winston Blissett, Sean Cook e Alex Lee.