Costretto a interrompere la programmazione e ad annullare – a seguito dell’ordinanza per contrastare la diffusione del Coronavirus – tutti gli eventi di un ricchissimo cartellone (eccezion fatta per la performance radiofonica Daily Kepler della compagnia Kepler-452, in diretta dagli studi di Radio Città del Capo, in onda dal 25 al 28 febbraio dalle 18.30 alle 19.00 per commentare e discutere le notizie lette ogni mattina sui giornali), Vie Festival ha presentato due spettacoli che hanno più di un punto in comune, pur essendo agli antipodi.
Al Teatro delle Passioni di Modena è andata in scena, in prima assoluta, Chi ha ucciso mio padre di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini per la prima volta non direttamente sul palco (il protagonista è Francesco Alberici) e non con un loro testo (è la trasposizione dell’omonimo libro autobiografico – caso editoriale in Francia e pubblicato anche in Italia da Bompiani – di Édouard Louis); mentre al Teatro Arena del Sole di Bologna Pascal Rambert radunava i suoi attori storici (Emmanuelle Béart, Audrey Bonnet, Anne Brochet, Marie-Sophie Ferdane, Arthur Nauzyciel, Stanislas Nordey, Pascal Rénéric, Laurent Poitrenaux e Jacques Weber) per dar vita all’ambizioso Architecture.
In entrambi i casi il centro della vicenda è il rapporto con un padre problematico: quello direttamente chiamato in causa, pur se in assenza, dello spettacolo di Deflorian/Tagliarini (qui la recensione), che non ha un nome ma è indicato dalla sua funzione. Si tratta di «un dialogo a una voce sola» (così Daria Deflorian ha definito lo spettacolo), in cui il figlio ricostruisce il rapporto complesso con un uomo che ha profondamente odiato, ma che arriva in qualche modo a comprendere. Un milieu degradato, fatto di miseria, di rifiuto di ogni sorta di emancipazione, a cominciare dall’istruzione, in cui l’affermazione della propria mascolinità è l’unica cosa che conta. «La tua è stata un’esistenza negativa. Non hai avuto denaro, non hai potuto studiare, non hai potuto viaggiare, non hai potuto realizzare i tuoi sogni. Nel linguaggio ci sono quasi solo negazioni per esprimere la tua vita», dice il figlio che invece riesce a invertire la rotta di una storia che per lui sembrava già scritta.
In Architecture c’è un padre dispotico (interpretato da Jacques Weber, qui tutti i personaggi hanno i nomi dei loro interpreti), una presenza ingombrante e violenta. Ambientato a inizio Novecento, lo spettacolo attraversa la Prima Guerra Mondiale, per arrivare all’annessione dell’Austria alla Germania nazista. L’ambiente è quello dell’alta borghesia, Jacques è un celebre architetto che all’inizio della pièce viene insignito di un’importante onorificenza. È un uomo autocentrato, insoddisfatto dei quattro figli (in particolare dei due maschi, il pensatore Stan e il musicista Pascal, mentre verso l’etologa Anne e la psicologa Emmanuelle è più indulgente) e dei loro rispettivi partner, che vuole continuare ad avere voce in capitolo sulle esistenze di tutti. Le colpe ricadono sui figli sembra ripetere con insistenza Rambert, nel microcosmo familiare con l’incapacità di amare, ma ancora di più nel macrocosmo sociale con il ripetersi della follia della guerra cercata e voluta da alcuni personaggi (il giornalista Laurent «vogliamo la guerra e la faremo sarò il suo messaggero e il suo corrispondente» o il militare Arthur «la guerra è un bene nessuno vuole farsi mettere i piedi in testa») e che finisce per abitare anche gli altri («io ce l’ho dentro la guerra», dice Anne cui fa eco Emmanuelle: «[…] sono diventata la guerra la sua bruttura sono diventata brutta e pazza», ma anche Stan riesce a coglierne gli aspetti positivi «la guerra ha questo di buono fa il vuoto e scaglia l’uno contro l’altro i nemici»).
Altro tratto comune ai due spettacoli è la violenza: se Jacques è un uomo violento (lo è stato con la moglie defunta e con i figli) e la violenza sembra essere il leitmotiv del testo di Rambert, nell’opera di Édouard Louis subisce un importante e inaspettato ribaltamento: «La violenza non produce solo violenza […] la violenza ci aveva salvati dalla violenza», dice il figlio, perché chi ha subito violenza (il padre) sceglie volontariamente, «ossessivamente», di non riprodurre la stessa modalità. Un uomo pieno di chiaroscuri questo padre che, se da una parte afferma che non bisogna piangere mai, dall’altra piange quando vede l’opera in televisione (mentre le lacrime in Rambert diventano «lenti di ingrandimento ci si vede bene e tutto è ingrandito ci si vede il futuro ma io ce l’ho un avvenire?» si chiede Audrey). Infine l’attenzione al linguaggio: se per Louis è importante chiamare le cose con il loro nome tanto da, letteralmente, fare i nomi di chi ha “ucciso” il padre («Voglio fare entrare i loro nomi nella storia per vendetta»), Rambert, costruisce sulla carta un’architettura complessa di parole per arrivare alla decostruzione del linguaggio in senso godardiano. Jacques rivolgendosi a Stan chiede «[…] sei il genio che distruggerà il mondo è così? Farai esplodere il linguaggio dimostrerai che quando parliamo non diciamo nulla? Ci obbligherai a osservare la nostra nullità in quell’attentato perpetrato dalla lingua?» e Stan rivolgendosi a Anne: «La vita ci separa perché non diciamo le parole giuste le frasi giuste siamo dizionari scarabocchiati facciamo solo lapsus e ci ammazziamo gli uni gli altri». Se la sua intenzione, come sembrerebbe, è quella di far esplodere il linguaggio, le frasi ridondanti non sembrano aiutare.
Due spettacoli che hanno un legame forte con il testo scritto: Chi ha ucciso mio padre nasce prima come testo letterario la cui potenza viene amplificata dallo spettacolo di Deflorian/Tagliarini, mentre Architecture che nasce come spettacolo sembra trovare la sua piena espansione nella lettura più che nella rappresentazione. Comunque sia, in entrambi i casi, opere su cui riflettere.
Foto di Chi ha ucciso mio padre: Luca del Pia, Andrea Pizzalis
Foto di Architecture: Christophe Raynaud Delage