Michele Sinisi: La grande abbuffata ci riguarda spiritualmente, fisiologicamente, emotivamente

Mangiare e fare sesso fino a morire. Così quattro amici si chiudono in una villa determinati a portare a termine il loro progetto. Michele Sinisi regista – e drammaturgo insieme a Francesco Maria Asselta -, fa rivivere a teatro il film di Marco Ferreri che nel 1973 fece scandalo: fu fischiato a Cannes, censurato alla sua uscita in sala e divenne un cult per la sua critica feroce alla borghesia, alla società del consumo e del benessere («Un monumento all’edonismo» lo definì Luis Buñuel). Su una scena scarna (la scenografia è di Federico Biancalani), costituita da un tavolo (da obitorio?), tre celle d’acciaio, una cucina, un bidone della spazzatura, una tastiera, un water in bella mostra su un podio, una vespa Piaggio e uno schermo su cui irrompe la realtà (la macellazione di un maiale, spot pubblicitari, i like di cui non si può fare più a meno, ma anche una scena del film di Ferreri) arrivano i quattro protagonisti che, come nel film, portano i loro stessi nomi: Stefano (Braschi), Ninni (Bruschetta), Gianni (D’Addario) e Donato (Paternoster) a cui si aggiungono la materna Adele (Tirante) che li accompagna nel viaggio verso la morte e le tre prostitute (Sara Drago, Marisa Grimaldo, Stefania Medri). Prodotto da Elsinor e Teatro Metastasio di Prato, lo spettacolo vuole essere una riflessione sulla necessità del rito, a maggior ragione in questo particolare momento storico. Ne abbiamo parlato con il regista.

 

Confrontarsi con un cult non è mai semplice.

Mi sono approcciato in modo ironico, distaccato, con il gioco rimettendomi, credo, nel solco di Ferreri che nella sua filmografia ha raccontato la crisi del maschio moderno. All’epoca era appena iniziata – dopo il boom economico e l’emancipazione della donna, il suffragio universale -, oggi siamo arrivati al punto che il maschio sta esplodendo perché sente che la sua leadership è fortemente minata. Forse ora siamo più informati di prima rispetto alle violenze, ma Ferreri già raccontava tutto questo. Sarei diventato ridicolo se avessi fatto un racconto lineare, allora ho scelto di riempire tutto quello che accade di un’esperienza visiva, sonora, olfattiva affinché quelle morti siano dei segni raccontati per immagini.

 

Non è necessario aver visto il film per vedere lo spettacolo.

Anche in questo caso ho giocato affinché chi viene a vedere lo spettacolo non senta la sottrazione della mancanza della visione del film, ma viva comunque un’esperienza specifica che ha un inizio, una fine con un linguaggio che è quello che hai visto. Fondamentalmente mi diverto, con Biancalani giochiamo e c’è un ragionamento condiviso con gli attori che non sono mai semplici esecutori. Poi  mi piace il suono onomatopeico del titolo, quel rotondeggiare del suono che accomoda l’idea di andarlo a vedere, sembra un claim dei giorni nostri, in realtà involontariamente perché il testo è stato scelto prima della pandemia, ma paradossalmente mi sembra ancora più azzeccato di quanto non sarebbe stato senza quello che abbiamo vissuto.

 

 

La grande abbuffata fa parte di un progetto che coinvolge anche i social.

Credo che il progetto sia il vero spettacolo e lo spettacolo la scena madre di un progetto. Ormai la narrazione parte già dalla rete, per me era interessante mettere in scena la consapevolezza di un rito che ormai non ha più un inizio né una fine, ma appartiene a una comunità che si sposta continuamente tra reale e virtuale non rifiutando né l’uno né l’altro, ma facendoli dialogare.

 

Ninni parla molto dell’importanza del rito…

È il personaggio che porta avanti il concetto del rito, che inizia con il maiale ucciso all’inizio in video. Ninni porta anche avanti il discorso sulla corruzione, il rapporto con l’arte, l’aspetto politicizzato piuttosto che il politico, gli orrori (citando un pezzo di Apocalypse Now che è un po’ la summa dei mali del 900)… Ogni personaggio porta avanti una sua linea e le morti non sono altro che i finali dei loro percorsi, ognuno con il suo colore, con il suo gioco. Mi piace che accadano in scena delle esperienze in modo performativo piuttosto che vedere delle capacità e delle abilita recitative perché penso non ci sia più spazio per questo. O almeno, in quanto spettatore non ci crederei più, a parte se lo fa qualche grande maestro del 900, gli ottantenni di oggi, che raccontano non tanto il testo che rappresentano quanto la memoria di cui sono depositari ed è una memoria che si evolve sfondando i confini e in modo avanguardistico, scoprendo nuovi dettami del concetto di linguaggio, di forme espressive che conosciamo ancora prima di entrare in teatro.

 

Oltre ai tuoi attori storici per la prima volta c’è Ninni Bruschetta

Ninni è stato il mio primo regista, per me è il teatro come io l’ho conosciuto. Ho lavorato con lui a vent’anni, faceva teatro d’avanguardia, già proponeva una linea pop. C’è stata una bella dialettica durante l’allestimento, lui non ha fatto che sviluppare il rapporto con il rito e con l’”essere non essere” così come fa Michel Piccoli nel film, che trova il suo apogeo alla fine quando crolla l’americana come a dire che se continuiamo a insistere saremo sepolti dalla mercificazione degli spazi e se non diamo spazio alle nuove generazioni, siamo destinati all’autoestinzione. C’era bisogno, tornando a teatro dopo un  anno e mezzo, di questa grande abbuffata: è qualcosa che ci riguarda spiritualmente, fisiologicamente, emotivamente.

 

 

Nello spettacolo, che si chiude su Il cielo in una stanza, Gino Paoli è molto presente. 

Sì, è un gioco che richiama le imitazioni che fa Ugo Tognazzi nel film. Per la mia generazione Gino Paoli rappresenta la nostalgia, non lo abbiamo vissuto direttamente ma ci veniva propinato dai genitori, è qualcosa che appartiene a un passato che è andato e non tornerà più…

 

Essere giovani per sempre (risuona a un certo punto We’re Young dei Fun) è un’altra ossessione del nostro tempo.

I quattro amici non accettano nemmeno i risultati delle loro ambizioni, sono tutti rappresentanti dell’alta borghesia, all’epoca, oggi è una borghesia molto più diffusa, ormai la gente muore di sovralimentazione. L’abbecedario di questa narrazione attiene a tutti questi segni che sono popolari e contemporanei… Non mi interessa siano chiarissimi, ma che aggancino il pubblico. Diciamo che è un segno più che un disegno e mi interessa che faccia vedere quello che manca: sarà il pubblico in base alla sua sensibilità a chiuderlo, questo è un po’ il gioco che cerco sempre. Anche per questo la scena nei miei spettacoli è sempre necessaria piuttosto che naturalistica e narrativa, cerco di non sistematizzare mai nulla dal punto di vista estetico, preferisco qualcosa di plausibile per ciascuno di noi nell’idea di fare il teatro e di vederlo.

 

Foto di Luca Del Pia

Milano, Teatro Fontana      6-13 giugno

Prato, Teatro Metastasio    17-20 giugno