Addio a Melvin Van Peebles, il profeta della blaxploitation

“Fino ad oggi, tutti i film sui neri sono stati raccontati dal punto di vista della maggioranza bianca: nei loro ritmi, nella velocità, nell’andamento. Sono stati diluiti per soddisfare la maggioranza bianca, come i ristoranti cinesi vanno leggeri sulle spezie per assecondare i palati americani. Voglio invece che i bianchi si avvicinino come si avvicinano ad un film giapponese o italiano. Devono capire la ‘nostra’ cultura. Nel mio film, finalmente, il pubblico nero ha l’opportunità di veder realizzata la sua fantasia di sollevarsi dal fango e farsi vedere una volta per tutte”. La voce è quella di Melvin Van Peebles (nato a Chicago il 21 agosto 1932 e scomparso a New York il 22 settembre scorso all’età di 89 anni), una delle massime figure di riferimento della cultura afro-americana, del cinema espresso da quella comunità in particolare nell’età d’oro della blaxploitation, ovvero gli anni Settanta, e risale a un’intervista del 1971. Anche se Van Peebles aveva già cominciato a scrivere e dirigere dei cortometraggi tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo e a firmare il primo lungometraggio, La permission, nel 1967: girato a Parigi, in bianconero, esplora stereotipi e razzismo nell’incontro tra un soldato afro-americano e una donna bianca. Lo sguardo sovversivo di Van Peebles è già dispiegato e, prima dell’opera ritenuta il passo d’avvio della blaxploitation (Sweet Sweetback’s Baadasssss Song), il cineasta e sceneggiatore dirige un secondo memorabile film passando dal bianconero al colore: L’uomo caffellatte (Watermelon Man, 1970), satira feroce che prende forma da un fatto inspiegabile: il protagonista, un bianco razzista che maltratta i neri, si trova da un giorno all’altro con la pelle scura. (In apertura un’immagine tratta da Sweet Sweetback’s Baadasssss Song).

 

Watermelon Man (1970)

 

In questo suo secondo capolavoro, Van Peebles si ritaglia un piccolo ruolo, dando così il via alla parallela carriera di attore condotta fino al 2018 e comprensiva di oltre quaranta titoli. Tutta la poetica anarchica, la visione politica, l’impulso creativo sono pronte per esplodere. Niente ingredienti diluiti. Pura materia black. Un anno dopo L’uomo caffellatte, ecco che Van Peebles sconvolge gli schermi (con tanto di classificazione X attribuita da una commissione censoria di soli bianchi) con quel film dalla pronuncia impossibile, che si potrebbe tradurre “La ballata di Sweetback dolce attaccabrighe”. Una corsa senza fiato, ritmi vertiginosi, la città come co-protagonista, le Black Panther, poliziotti razzisti, la fuga di un uomo (cui dà corpo lo stesso regista), cresciuto in un bordello dove lavora sfruttando le sue doti sessuali, dalla polizia che lo insegue. Si tratta di un testo che ancora oggi rimane una pietra miliare della contro-cultura e una vetta di un cinema espanso, carnale che, portando alle estreme dilatazioni una situazione narrativa, si fa espressione di una ricerca estetica immersa in pulsioni viscerali. Quel biennio rimarrà imprescindibile. Ma nel 2000 Van Peebles (che nel frattempo ha recitato anche in film del figlio Mario, cineasta di talento, come i magnifici e fortemente politici Posse, western black del 1993, e Panther, del 1995) realizza un’altra memorabile commedia nera, tornando a un’ambientazione francese, Le conte du ventre plein. È il suo penultimo film per il cinema dietro la macchina da presa (è stato un autore poco prolifico con sette lungometraggi su una filmografia che in tutto conta diciassette titoli). Eppure, nonostante il numero ridotto di opere, Melvin Van Peebles lascia un segno indelebile nella storia del cinema, non solo afro-americana.