Domenico Gallo: la fantascienza è quella letteratura che è contro lo stato di cose presenti

Lontano dalla scena asfittica della grande editoria patinata, Domenico Gallo è un pensatore di razza, attivo da decenni nel mondo della letteratura sia come recensore, è stato una delle penne storiche di magazine come Pulp Libri, sia come studioso, esperto conoscitore della relazione tra fantascienza e fascismo in Italia, sia come narratore. In quest’ultima veste vediamo Gallo uscire con ben due volumi targati Delos Books: L’ultima cordata (pag.216, euro 16,15) e La patria del ribelle (pag.229, euro 16,15) che raccolgono i suoi racconti brevi dagli anni ’70 agli anni 2000. La qualità è elevata a tutto tondo, sia nello stile, sia nella tecnica della scrittura sia nella profondità di narrazioni fantascientifiche con un taglio politico radicale e graffiante. In occasione dell’uscita di L’ultima cordata e La patria del ribelle, abbiamo intervistato Domenico Gallo su politica e fantascienza.

 

Nei racconti delle tue raccolte da poco pubblicate, L’ultima cordata e La patria del ribelle, emergono prepotenti alcuni temi. Quali, e qual è la tua visione di questi temi?

La redazione di questa antologia in due volumi mi ha portato a una lettura cronologica dei miei racconti che non avevo mai fatto. All’inizio direi che emerge una fantascienza new wave molto cupa. Negli anni Ottanta ero molto attratto dalla narrativa di John Brunner, Barry Malzberg e Thomas Dish. Da loro potrei avere preso i temi del potere e l’incombere della catastrofe ecologica, con l’inquinamento industriale chimico e nucleare. Mi piaceva molto anche Michael Moorcock ed ero stato impressionato dal ciclo di Jerry Cornelius. The English Assassin, ancora inedito in Italia, fu il primo romanzo in inglese che lessi… e fu una fatica tremenda. Il personaggio di Jerry Cornelius, questa specie di criminale cinico pop, un po’ anarchico e un po’ snob, mi affascinava e avrei voluto evolvere un protagonista simile, ma non ci sono riuscito. Forse da lì è venuta l’idea di contaminare la fantascienza con la cultura pop e con la musica che sentivo, sostanzialmente progressive rock (che all’epoca non si chiamava così, almeno credo, con i Gong, Mekanïk destruktïw kömmandöh, Soft Machine, Area, Matching Mole e moltissimi altri) e il jazz dell’avanguardia di Anthony Braxton, Sun Ra e Art Ensemble of Chicago. A partire dal 1974 ho assistito a tutti i concerti che potevo raggiungere, vivendo, anche se in maniera sempre un po’ distaccata, la cultura del Movimento. Rimanevo un giovane secchione che solo nella compattezza del corteo, nel bavaglio tirato sul naso, trovava una dimensione collettiva in quel magmatico anonimato marciante e urlante. L’altro tema è certamente quello della ribellione. Nel 1974, al primo anno di liceo, incontrai le esperienze dei gruppi nella mia scuola, prima il Movimento Lavoratori per il Socialismo, che per fortuna si premurarono di allontanarmi rapidamente da loro, poi il movimento che nasceva dallo scioglimento di Lotta Continua, dalla tradizione di Potere Operaio, dai molti elementi che venivano dalle esperienze non strutturate del post ’68, dai cani sciolti, e che era Autonomia Operaia, in cui, sempre alla mia maniera che rifuggiva il coinvolgimento personale assoluto, mi ritrovai quasi naturalmente. Un’esperienza in me ancora viva dopo quasi 50 anni e che adesso definisco serenamente come operaismo. In alcuni racconti il richiamo al ciclo di lotte del Movimento è espresso direttamente, sono racconti realisti che interlacciano persone ed episodi reali con elementi immaginari, come Liebe Macht Frei ed È questa vita un lampo. Nei primi anni Ottanta era forte in me la convinzione che quell’esperienza si fosse conclusa con una sconfitta politica ed esistenziale, e quello che rimaneva da fare fosse costruire una testimonianza di quegli anni affinché non andassero eliminati dalla Storia. Credevo che bisognasse parlarne e scriverne per combattere l’oblio. In realtà, di tutta l’esperienza politica che nasce dal ’68, solo l’operaismo e l’Autonomia sono rimasti con coerenza, sia come elaborazione teorica, sia come sforzo editoriale (vedi il lavoro delle edizioni DeriveApprodi), sia nei centri sociali ma, soprattutto, con il grande coraggio di chi non ha mai abbandonato le piazze anche in periodi durissimi come questi.

 

In ogni caso, prima delle manifestazioni contro il G8 di Genova, in me era forte un senso di isolamento politico e un individualismo non amato. Questo è anche il senso di un racconto che ebbe un certo successo come I battitori del crepuscolo. Quel racconto era stato molto amato da Antonio Caronia, la persona che assieme a Daniele Brolli e al gruppo delle edizioni Shake (un editore di movimento straordinario) aveva diffuso in Italia il cyberpunk come cultura politica e artistica. All’inizio si intitolava Carcinoma Tango e volevo scrivere un racconto radicale, duro, che affrontasse esplicitamente tutti i tabù come il sesso, la morte, l’ingiustizia. Avevo sempre in testa Il grande incubo di Barry Malzberg, lo sfondo di Blade Runner e quel senso di insubordinazione di Neuromante. Il racconto aveva lo stesso titolo di una raccolta di Jacques Barberi del 1993. Il mio racconto esce nel 1994 su Intercom, ma non c’era ancora stata tra me e Jacques alcuna connessione e scoprimmo in seguito che eravamo stati attratti dalle stesse parole, quando lui tradusse in francese il mio racconto Il riflesso nero del vinile. Io pensavo a un titolo come The Killer Elite o The Osterman Weekend, i film di Sam Peckinpah, che fosse leggibile sia in italiano sia in inglese, poi mi capitò tra le mani un bel romanzo del francese Pierre Pelot che si intitolava Parabellum Tango. Bellissimo! E uscì Carcinoma Tango, che è un titolo molto adatto a quella vicenda. In quel racconto comincia un lavoro sulla cronaca del mondo globale. Non c’era ancora il web e l’informazione era solidamente cartacea, ma su il manifesto e Internazionale era frequente trovare notizie che erano ignorate o censurate dai media istituzionali. Era notizie provenienti dal vecchio Terzo mondo che documentavano scioperi contro le manifatture di proprietà occidentale, attività di guerriglia, disastri ambientali, migrazioni, guerre civili e repressioni che erano conseguenze della globalizzazione neoliberista. Da questo mare di ritagli prendevo nomi e situazioni, come Tsutomu Makoto, proveniente dalla Nihon Sekigun, l’Armata Rossa Giapponese, che fa intuire nello sfondo dei miei racconti che al dominio del fascismo globale si oppongono forze di opposizione globali. Per concludere, direi che sono i temi della lotta, delle pratiche di opposizione, della rottura dei confini, delle alleanze dal basso, dell’abbandono delle tradizioni e delle identità che mi hanno accompagnato in questi anni osservando un mondo in fiamme in cui violenza, sorveglianza, delirio delle élite, fanatismo e neoconservatorismo stanno dilagando. E solo la fantascienza, secondo me, è in grado di descrivere realisticamente questi processi di strutturazione del dominio capitalista. La fantascienza è come se fosse la vera cronaca sfuggita alla censura.

Un personaggio ricorrente dei tuoi racconti è Mascara Snake. Qual è il suo percorso, sia letterario che di crescita del personaggio, nel corso degli anni?

In realtà Mascara Snake nasce per caso. Il nome era stato pronunciato da Claudio Asciuti, autore di fantascienza e vincitore di un Premio Urania, che aveva un disco di Captain Beefheart & His Magic Band, probabilmente Trout Mask Replica. Mascara era un pittore e clarinettista a cui venne affibbiato questo stranissimo soprannome. Un nome troppo bello per non essere usato e per diventare quello di un searcher, un battitore del crepuscolo. The Searchers è il titolo originale di Sentieri selvaggi, il capolavoro di John Ford del 1956, in cui, appunto, John Wayne batte il deserto alla ricerca della nipote rapita dai comanche. Il titolo I battitori del crepuscolo però venne in seguito, con la stesura del racconto Silicon Deliverance su cui Caronia aveva insistito che affiancassi a Carcinoma Tango, e che ha un taglio più cyberpunk. Il personaggio riappare altre due volte, in Front End Dance e in Negras Tormentas, perché era un’identità che mi piaceva e mi sembrava non completamente realizzata. Da un punto di vista della logica temporale del personaggio, I battitori del crepuscolo è l’ultimo mentre Front End Dance è il primo, ma i contesti in cui si sviluppano le storie non sono coerenti tra loro, non li avevo pensati come una serie di episodi logicamente collegati. Diciamo che Mascara, un po’ alla Jerry Cornelius di Moorcock, è una tipologia umana che io richiamo nella narrazione quando sussistono certe condizioni. Ammetto che avevo iniziato a scrivere un romanzo dedicato a Orson Wells che dovrebbe essere l’ultima e la più amara vicenda di Mascara. Titolo provvisorio Terroristi.

Uno dei campi in cui sei maggiormente esperto è il rapporto tra fantascienza italiana e politica. Com’è cambiato questo rapporto negli anni? E com’è cambiato il paese che la fantascienza italiana racconta?

Parafrasando Karl Marx, secondo me la fantascienza è quella letteratura che è contro lo stato di cose presenti. La fantascienza che non rappresenta un progetto di trasformazione, una tensione contro il potere, in generale fa cagare. È una letteratura che, a partire dalla realtà percepibile, va oltre, scarnifica il presente per svelarne aspetti occulti, tendenze, possibilità, prospettive. Non è la previsione del futuro ma l’analisi dell’immaginario contemporaneo effettuata attraverso i meccanismi della narrazione. Un po’ come il linguaggio del sogno della psicanalisi, un racconto simbolico della realtà soggettiva. La fantascienza invece lavora sull’immaginario che è inter-soggettivo, è condiviso, collettivo. In questo senso tutta la fantascienza è politica perché si basa su costruzioni sociali i cui rapporti sono ridisegnati sulla base dello sviluppo delle tecnologie e della geo-politica. Nell’immediato Dopoguerra i grandi sconfitti della guerra civile italiana sono stati i comunisti e i fascisti. Beh… i fascisti non tanto, visto come l’espressione della loro violenza esistenziale, che si era manifestata in tutto il loro criminale sadismo, si è alla fine risolta con una campagna di de-fascistizzazione fallimentare, da operetta. Direi che ai fascisti è stato imposto solo di non proclamarsi apertamente tali. Il fantastico è stato per gli sconfitti una dimensione in cui proiettare insoddisfazione, paure, ideali inespressi. Negli anni Sessanta-Settanta militanti di base sia fascisti sia comunisti hanno diretto il loro sguardo verso la fantascienza e il fantastico. È stato da subito evidente che, pur senza dogmatismi, il fantasy e l’horror dell’epoca fossero più congeniali a chi, come i fascisti impegnati nel costruire un loro neofascismo, avesse uno sguardo rivolto al passato, a un mondo di valori che prima l’illuminismo e poi la modernità avevano cercato di smantellare. Ho sempre pensato che il lavoro di Gianfranco De Turris di creare un immaginario nero sia stato molto efficace e coerente. Del resto, se si legge con attenzione il saggio di George L. Mosse Le origini culturali del Terzo Reich, è evidente che la ricerca di un senso dell’oggi nel passato, anche quello inventato e strumentalizzato (il mito tecnicizzato di cui parlano Furio Jesi e Károly Kerényi), rappresenta una forza enorme contro il progetto della modernità, almeno per chi pensa di leggere il presente attraverso il passato e abbattendo con la violenza la progettualità democratica ed egualitaria. Oswald Spengler e Ernst Jünger hanno scritto tutta la critica conservatrice alla tecnica, tanto che Martin Heidegger non ha poi rappresentato una grande innovazione filosofica ma solo l’aspetto esteriormente accettabile. Ma, sebbene questo sia un argomento che irrita i nostri intellettuali fascisti, questa non è l’unica critica della tecnica, c’è la critica socialista della classe operaia che interpreta l’illuminismo e la modernità alla luce del loro superamento, ripudiando le istanze conservatrici e aggredendo lo spazio infinito del futuro come un luogo temporale di lotta e riscatto, di immaginazione democratica ma dentro la distruzione della gerarchia di classe. Non dobbiamo leggere i residui della visione mitica stuccati oggi con le invenzioni pacchiane delle antiche razze, dei benefici del patriarcato, dell’elitarismo, degli eroi e altre minchiate, ma pensare un futuro in cui vivremmo tutti meglio senza razze, classi, subordinazione, capi carismatici, patriarcato. Se penso a qualcuno che mi ha influenzato oltre alla scuola di Raniero Panzieri o a Herbert Marcuse, oggi vedo Donna Haraway e bell hooks. Da loro ho appreso una cultura che se ne sbatte le palle delle origini e delle tradizioni, specialmente se queste culture che hanno un passato così nobile sono razziste, classiste, sessiste, violente ed elitarie. Questa cultura, che deve essere inventata, scritta da zero, immaginata collettivamente, nasce dal lavoro della razionalità umana dal basso, e non recuperata da una cattiva archeologia. Questa è una cultura che a partire dal presente sprigiona una serie di lotte per la conquista del futuro, dove conquistare il futuro vuol dire imporre ai pochi le nuove regole dei molti. Di questa cultura, inevitabilmente, fa parte la fantascienza critica. Oggi il conservatorismo e il suo braccio armato, il fascismo, sono i potenti lacchè di élite che si combattono per il loro potere, un potere di pochissimi. Come scriveva Antonio Gramsci, intellettuali organici al potere elitario hanno lavorato per creare egemonia culturale (ovvero un immaginario forte e condiviso). È un’egemonia palpabile che rilancia il razzismo e l’individualismo, e che interpreta questo mondo orrendo come il migliore di quelli possibili.

A partire dal 2000, diversi scrittori hanno iniziato a lavorare sul fantasy e sull’horror come realtà dissonanti dalla nostra contestandone la concezione mitica e conservatrice, come China Miéville, e in questo senso hanno realizzato un modello di straniamento molto efficace che ha iniziato a sviluppare un punto di vista critico simile a quello della fantascienza. Non si tratta più della destabilizzazione del presente da parte di entità appartenenti all’immaginario conservatore, quello che sogna di imporre modelli di organizzazione nel presente tratti da un passato mitico, anacronistico, gerarchico, ma di una forma di distruzione dell’ordine presente come metafora di una realtà che non è né unica né eterna. La fantascienza italiana si adegua a questi modelli, li rielabora alla luce non tanto di una visione nazionale ma entrando in un ruolo globale di paese colonizzatore e, contemporaneamente, colonizzato. Un esempio è stato Valerio Evangelisti, uno scrittore estremamente consapevole del ruolo che il fantastico svolge nella società contemporanea.

La fantascienza è un genere militante per definizione? Si può pensare ma soprattutto serve a qualcosa la fantascienza senza la politica?

Io penso di sì. È un genere militante, e, inevitabilmente, la fantascienza che non ha un’aspirazione politica è anche esteticamente modesta, almeno nella maggior parte dei casi. Ovviamente mi riferisco a ogni tipo di rielaborazione che sia dissonante con il modello antropologico, sociale e politico del presente. Oggi lo scontro per il dominio dell’immaginario è più potente che mai e il connubio Trump-Vance-Musk lavora per creare un livello di consenso a livello globale basato sull’alterazione e gestione delle realtà. Si parla sempre di più di una fantascienza capitalista e di come il sistema dei media operi un livello di falsificazione che definire dickiano è ancora poco. All’utilizzo istituzionale del falso, deve essere operata una strategia distopica di smascheramento e una utopica di costruzione di alternative, e la cultura del fantastico, a cui la fantascienza appartiene, è l’elemento fondamentale per destrutturare il sistema del dominio.

In quanto narrativa d’anticipazione, come la fantascienza del passato ha influenzato il presente (sia come profezia autoavverante sia come cautionary tale), e come pensi che influenzerà il futuro?

Sono convinto, e devo ad Antonio Caronia questa visione, che la fantascienza sia la letteratura che meglio di altre accompagna le lotte globali. È una lezione che viene dal cyberpunk, una fase della fantascienza che ha messo al centro l’opposizione utopia-distopia come elemento dialettico. Se guardiamo indietro, al periodo che va dalla fine dell’Ottocento all’inizio della Prima guerra mondiale, è evidente che la grande letteratura di Tolstoij, Victor Hugo, Emil Zola, Jack London, Herbert G. Wells, che è attenta alle classi e alle loro dinamiche, è in grado di accompagnare meglio la storia dell’Occidente di quanto non facesse il romanzo borghese. È chiaro che il romanzo borghese ha un valore straordinario nell’ambito dell’evoluzione della cultura di quella classe, nello scavo psicologico di personalità sempre più complesse, nello stesso pessimismo che questo maggiore benessere e potere in maniera apparentemente contradditoria porta con sé, ma il costituirsi delle masse come un elemento politico creativo e ostinato (come fu nella Comune di Parigi), ma anche negativo e regressivo (come fu nel fascismo italiano e in quello tedesco), con una sua cultura autonoma, è un elemento fondamentale che arriva fino a oggi. La fantascienza, che come diceva James G, Ballard è la letteratura del XX secolo, è la letteratura che si occupa della scienza e della tecnica e delle loro contraddizioni, di come si stabiliscano le forme pratiche che il potere andrà ad assumere, della capacità del sistema di creare consenso e operare la divisione all’interno delle classi subalterne, e, quindi, indirettamente, le forme che dovrà assumere il contropotere. La lezione del cyberpunk, alla faccia di quelli che si illudevano negli anni Settanta che la fantascienza fosse morta, mentre, ci porta ad ammettere che, in realtà, in quel periodo (come scrive Cartosio) si stava modificando il sistema di potere politico ed economico allora esistente a livello globale, e il cambio di fase della fantascienza ha comportato una reazione immediata dell’immaginario al neoliberismo, alle migrazioni, alla spinta della decolonizzazione, alla nascita di nuovi centri economici come il Giappone, poi la Corea e infine la Cina, alla trasformazione dell’umano in cyborg e all’evoluzione delle macchine verso la coscienza. Nel giro di un anno la fantascienza mondiale si ristruttura per accompagnare letterariamente le rivolte globali e la rottura dei confini. Immigrati clandestini, non garantiti, ceti medi proletarizzati e impoveriti, lavoratori a giornata sono i nuovi protagonisti della fantascienza. E per la prima volta il messaggio della fantascienza è talmente potente che si allea ad artisti, musicisti, poeti e intellettuali, facendosi cultura antagonista mondiale (da William Gibson a Cory Doctorow). Sono convinto che in ogni futuro che diventa presente ci sarà una forma di letteratura speculativa che ne attiva la dialettica. Non è un caso che la fantascienza sia antropologicamente cambiata e dal dominio anglosassone e maschile si è diffusa una narrativa scritta da donne, emigrati di seconda generazione, e rapidamente ampliata alle scritture delle persone che vivono nel mondo decolonizzato e che hanno un’esperienza diretta delle contraddizioni e delle lotte globali. Un esempio, tutto il lavoro che Francesco Verso sta portando avanti da anni con la sua casa editrice Future Fiction che traduce la fantascienza del mondo intero. Come dicevano gli anarchici, “la mia patria è il mondo intero”.

La fantascienza ha ancora, se mai lo ha avuto, un potenziale di incidere sulla realtà tale da poter essere considerata uno strumento di lotta politica? Ma poi, ha ancora senso la lotta?

Come ho detto prima, certamente sì, ma non da sola. Riesce a essere uno strumento di lotta se si interconnette ai movimenti globali che agiscono sul territorio, alle comunità, alle esperienze di autogestione. Quando scrivevo il mio racconto Il riflesso nero del vinile, pensavo a questo, a forme di lotta globali organizzate con “strategia lillipuziana”. Avevo preso l’idea da Jeremy Brecher e dal suo libro scritto con Tim Costello dal titolo Contro il capitale globale. Oggi Jeremy è in prima linea nelle proteste statunitensi contro Donald Trump e le sue politiche fasciste di smantellamento dello stato sociale e di pulizia etnica, creando network tra le proteste locali di diversa natura e sviluppatesi in luoghi differenti. E la lotta ha senso, se no muori.