Fabrizio Gifuni, Lo straniero e lo spazio vuoto

gifuni_3La pagina scritta si fa corpo, acquista una nuova dimensione e finisce per gettare una luce inedita sull’opera letteraria. È la formula creata da Fabrizio Gifuni per gli spettacoli in cui rivisita alcuni dei capolavori della letteratura mondiale. E che di quando in quando, in una logica anticonsumistica estranea alla maggior parte del teatro italiano, ripropone. È successo in queste sere al Teatro Franco Parenti di Milano dove ha dato vita alle pagine di Lo straniero di Albert Camus (e dove tornerà a fine giugno, il 23 e il 24 con una nuova produzione dal titolo Un certo Julio. Omaggio a Julio Cortázar e Roberto Bolaño). Su un palco spoglio che divide con GUP Alcaro, raffinato sound designer che crea un’accurata e mai banale ambientazione sonora della vicenda, appaiono alcune valigie accatastate (forse per indicare un ultimo viaggio), e svariati microfoni (il sottotitolo dello spettacolo è Un’intervista impossibile). Poi in scena compare Gifuni, di bianco vestito, e, nell’arco di un’ora e mezza, veniamo trasportati ad Algeri, diventando testimoni della tragica parabola di Meursault. Gifuni gli presta la sua voce e il suo corpo, ma si fa abitare anche dagli altri personaggi che incrociano la strada di Meursault (il direttore della casa di riposo dove la madre è morta, il custode, i vicini di casa, il giudice, l’avvocato…). Uno straordinario rito condiviso, che annulla la distanza tra l’attore e lo spettatore. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Gifuni.

 

Lo straniero viene proposto come un reading, ma in realtà è un vero e proprio spettacolo…

Per quello che mi riguarda questa divisione in categorie non si dà proprio perché io so che la temperatura che raggiunge il mio corpo e il livello di attenzione che metto nel condividere con il pubblico quello che accade in scena è lo stesso che ci metto quando faccio L’ingegner Gadda va alla guerra o quando faccio Lehman Trilogy. Per me un reading non ha un significato di seconda classe, con l’attore che va a leggio, inforca gli occhiali e si limita a leggere il testo. A me piace moltissimo leggere ad alta voce qualsiasi cosa, però penso che scomodare delle persone per venire in teatro e proporgli, anzicgifuni-lo-stranierohé di leggere il libro a casa propria, di ascoltarlo leggere da qualcuno è una cosa che mi convince a metà. Penso che veramente tutto si riduce a quello che succede in uno spazio, se succede o non succede qualcosa. Ci possono essere scene, costumi, tantissimi attori…, ma sappiamo per esperienza che questo non assicura patenti di spettacoli di serie A e di serie B. Lo spazio vuoto ha un’anima con cui bisogna dialogare, quindi anche gli elementi di scena non sono strettamente necessari. Basta pensare a quello che ha fatto Ronconi con Lehman Trilogy: una scatola bianca, uno spettacolo molto complesso, con 15 attori, ma in effetti cosa serviva in più? Molto spesso è più forte evocare (per esempio, in quel caso, evocare i campi di cotone attraverso le parole e i corpi degli attori che non mettere in scena cinque balle di cotone). E questo per Lo straniero, per me, è molto evidente. La scommessa è anche quella di riuscire a far vedere il mare alla periferia di Algeri, piuttosto che l’ospizio o l’aula del tribunale.

 

Scommessa vinta anche grazie alla sonorizzazione in diretta.

Assolutamente. Ho trovato una grandissima sintonia con GUP Alcaro che fa un lavoro straordinario: ricostruisce un paesaggio sonoro che aiuta ad attivare ulteriormente i sensi dello spettatore, già fortemente sollecitati dal testo di Camus che di suo è fondato su una carica sensoriale pazzesca (i suoni, gli odori, la luce che addirittura è decisiva nell’accadimento criminale, il tatto…). Tutti i sensi sono già sollecitati all’interno del romanzo, quindi si stratta di tirarli fuori e di dargli un’ulteriore dimensione. Oltre a questa sensibilissima capacità di ricostruire in maniera magnifica questo paesaggio fatto di suoni, GUP fa un lavoro musicale molto raffinato con cui mi piace moltissimo dialogare. Ogni sera c’è una qualità di ascolto fra noi due molto forte che viene poi trasmessa al pubblico.

 

Interessante pure l’accostamento a musiche direttamente ispirate al romanzo di Camus (da Killing an Arab dei Cure a The Stranger dei Tuxedomoon).

Questa è stata una bellissima scelta di Roberta Lena che ha ideato questo reading su commissione del Circolo dei lettori e del Festival di Torino Spiritualità. Era nato proprio come un reading da fare al Teatro Carignano, nel 2013, e poi la risposta del pubblico è stata talmente bella che abbiamo sentito subito che era materiale su cui sarebbe stato giusto continuare a lavorare. Ho quindi pensato di inserirlo all’interno di questa sorta di repertorio moderno che ho creato in questi anni in cui non abbandono mai completamente gli spettacoli (‘na specie de cadavere lunghissimo, che ho rifatto quest’anno, è l’undicesimo anno che gira, L’ingegener Gadda va alla guerra sono sei anni, e così gli altri). Questa è una mia ferma decisione che mi costa molto in termini di fatica fisica e anche di memoria, ma è la scelta di andare contro al consumo, almeno in teatro. Quando vedo alcuni miei colleghi o alcuni registi che appena debuttato già sono proiettati sullo spettacolo successivo, mi viene l’ansia. Già il teatro vive del suo essere perituro, vive nel qui e ora, almeno facciamolo vivere un po’… Se uno è svincolato da obblighi ministeriali, non ha la compagnia, non ha il borderò, perché non farlo? Io che lavoro molto spesso ideando e anche coproducendo gli spettacoli, ma libero da qualsiasi impegno e onere di finanziamento, mi prendo la libertà di alternare gli spettacoli, di riprenderli quando ho voglia.

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Nei tuoi spettacoli tratti da testi letterari le parole si fanno corpo e acquistano così una nuova dimensione.

Di un attore si capisce immediatamente quanto conti la dimensione corporea, fisica perché un attore è un corpo in scena, di uno scrittore si tende a dimenticarlo, ma in realtà quelle parole vengono da quei corpi, vengono dal corpo di Pasolini, di Gadda, di Camus, di Testori con tutto quello che si portavano appresso nel loro carico. Quindi ricordarsi che quelle parole non si depositano magicamente su un libro, ma vengono da un corpo, per me è stato fondamentale. È come se il mio percorso fosse far compiere alle parole il viaggio di ritorno, staccandole dalla dimensione orizzontale in cui si sono occasionalmente depositate – solo per una funzione di trasmissione, perché la gente le possa leggere – e rifacendomene carico. È forse un po’ per questo, oltre che per il fatto che credo che ci siano dei grandi testi letterari che sono potenzialmente pronti per la scena, che sono così appassionato di letteratura in teatro. Per esempio, Gadda non ha mai scritto nulla per il teatro, ma quasi ogni sua pagina è teatro allo stato puro, quindi si tratta semplicemente di ridargli un corpo, di far suonare quella lingua. Altri testi no, vivono bene in una lettura silenziosa. E poi credo che ridare una verticalità alle parole, o meglio tutte le dimensioni, aiuti molto chi agisce il testo, ma anche chi partecipa, cioè il pubblico, a comprendere meglio alcune cose che rimanevano un po’ nascoste nella lettura silenziosa. È come se, portandole in scena, si aprissero le maglie; anche con Camus capita che tante persone mi dicano che sembra un altro testo perché intanto fai piazza pulita di tutto quello che si sovrappone al testo, quindi l’esistenzialismo, la critica letteraria… Semplicemente riporto un corpo a raccontare quella storia e, allora, la si sente più vicina e si sente anche che ci sono zone molto più misteriose di quanto non sembrasse.

 

Questo tipo di approccio prevede, infatti, una grande d5a39935060aa41349a1579b08973930condivisione con il pubblico.

Questa è una cosa che mi sta molto a cuore perché riguarda Lo straniero, ma più in generale tutte le volte che vado in scena. Una delle poche cose che veramente ho capito in questi anni di lavoro e che non mi fa mai perdere l’entusiasmo tutte le sere è proprio l’idea di condividere con il pubblico quello che succede in scena, ma di condividerlo realmente. È come se io, o gli attori, si staccassero momentaneamente da un coro, da una comunità – come succedeva probabilmente all’origine della tragedia – e vanno momentaneamente a raccontare quella storia, ma poi, magari, un’altra sera ci va qualcun altro. Ho un rispetto assoluto per il pubblico anche quando succedono dei piccoli incidenti; intanto non mi infastidiscono mai realmente, nel senso che non mi distraggono perché per me tutto quello che succede nella sala è lo spettacolo che ci deve essere quella sera. Se c’è un imbecille che non ha spento il telefonino o ci sono quattro scemi che continuano a mandare messaggi sono dentro lo spettacolo. Per questo non ho mai personalmente l’idea del giudizio perché mi sembra che stiamo facendo qualcosa tutti insieme e, davvero, ogni sera facciamo una cosa nuova perché i corpi degli spettatori cambiano ogni sera, non perché io recito ogni sera in modo un po’ diverso. Semmai è il contrario: io recito in modo un po’ diverso perché i corpi degli spettatori sono diversi. Quindi non soltanto accolgo l’influenza che ha su di me il pubblico, ma per me è una fonte di forza, sennò veramente diventerebbe la fatica della replica. Mentalmente non sento mai la fatica della replica, la sento fisicamente, ma mai di testa. Ultima, ma non secondaria osservazione su questo discorso, è che ogni tanto segnalare al pubblico in questa epoca che non sta davanti alla televisione, ma che tutto quello che succede ha una relazione profonda, secondo me, è importante perché, purtroppo, non è così scontato. Molti pensano sto di qua, al buio, guardo come se stessi a casa mia, davanti alla televisione, chi disturbo? A parte che quelli che continuano a mandare messaggi disturbano sempre chi gli sta a fianco, e non capiscono che dalla scena si vede e si sente tutto. Anziché lottare contro questo atteggiamento – che intanto non si può evitare – io lo accolgo. Certo, se poi squilla il telefono per quattro minuti è molesto, ma mi dispiace più per gli altri che perdono il filo, che non per me.

Le fotografie dello spettacolo sono di Filippo Manzini e di Filippo Vinicio Milani.

Lo straniero. Un’intervista impossibile

Milano            Teatro Franco Parenti          fino al 27 maggio

www.fabriziogifuni.it

www.teatrofrancoparenti.it