A dieci anni dalla scomparsa di Patrice Chéreau possiamo tentare un bilancio della sua carriera polimorfa e della sua eredità inesausta. Attore, regista di prosa e di lirica, cineasta, è stato uno di quegli artisti che ha formato sin da subito attorno a sé un team di collaboratori che è stato anche una famiglia: si pensi allo scenografo Richard Peduzzi, al costumista Jacques Schmidt e al lighting designer André Diot, che lo hanno affiancato per decenni. Partendo da uno studio analitico di Brecht che lo ha spinto verso un naturalismo metamoderno, sintesi di mimesi moderna e autoriflessione postmoderna, Chéreau poliglotta ha scoperto e fatto (ri)vivere per il teatro di prosa testi intensissimi e poco conosciuti. Un esempio su tutti: le pièce Combat de nègre et de chiens, Quai Ouest, Dans la solitude des champs de coton e Le Retour au désert di Bernard-Marie Koltès, messe in scena al Théâtre Nanterre-Amandiers da lui diretto nel corso degli anni Ottanta. La sua inedita interpretazione critica del classico Marivaux ne ha perforato la superficie solare rivelando una critica sociale accorta e severa. Già prima, nel 1976, per il teatro d’opera ha fatto storia il suo allestimento al Festival di Bayreuth di Der Ring des Nibelungen di Richard Wagner, quintessenza della mitologia teutonica progenitrice del fantasy di Tolkien, riambientata scandalosamente a metà Ottocento con un occhio alle dinamiche sociali del capitalismo industriale e della spiritualità dell’epoca. Tre anni dopo si impone anche la sua regia della prima esecuzione della versione in tre atti di Lulu di Alban Berg, completata da Friedrich Cerha all’Opéra di Parigi. In entrambe le avventure il partner musicale di Chéreau è l’inarrivabile Pierre Boulez.
Parallelamente al teatro, dove la sua creatività si spende nel dare corpo e anima alle parole altrui, Chéreau scopre nel cinema un linguaggio che non solo gli permette di costruire storie sue, anche quando sono ispirate a testi esistenti, ma gli dà anche la possibilità, proprio in quanto dispositivo semiurgico onorico-allucinatorio, di soddisfare il suo bisogno di scavare nella psiche umana laddove essa si confonde con il corpo, laddove la coscienza si tuffa nell’inconscio, ovvero al limite tra dicibile e indicibile, tra mostrabile e interdetto. Un’orchidea rosso sangue (1975) è un noir survoltato con al centro da un mix esplosivo di sesso, psicosi, violenza e desiderio di potere, aggrovigliato attorno alla protagonista Claire; anche Judith Therpauve (1978) ha al centro una donna che tenta di emanciparsi da una società di uomini che vorrebbe schiacciarla; L’uomo ferito (1983) è il coming of age di un adolescente omosessuale che si innamora sadomasochisticamente di un uomo che si prostituisce; Hôtel de France (1987) è la storia di un uomo e una donna che sono stati innamorati e si ritrovano anni dopo a fare i conti con le delusioni patite nel loro rapporto; La regina Margot (1994) è un grand guignol che mescola ancora potere e sesso in una famiglia incestuosa e sanguinaria; Ceux qui m’aiment prendront le train (1998) racconta di una quindicina di personaggi che hanno a che fare con le ultime volontà di un pittore bisessuale che ha deciso di non lasciarli in pace neanche dopo la morte; Intimacy – Nell’intimità (2001) è la storia di un uomo e una donna che fanno sesso senza sapere niente l’uno dell’altra, finché lui non decide di spiare lei, scoprendone i segreti; Son frère (2003) racconta di un uomo che assiste il fratello omosessuale malato terminale, testimone attonito del disfacimento del suo corpo; Gabrielle (2005) è la storia di una coppia borghese della Belle Epoque che prende coscienza dell’inconsistenza del matrimonio; Persécution (2009) racconta di un uomo che perseguita un giovane di cui è innamorato, che a sua volta perseguita la sua fidanzata, entrambi terrorizzati dalla solitudine.
Tutte storie al limite, che pongono personaggi e spettatori di fronte a situazioni estreme (l’omicidio, lo stupro ecc.), a domande capitali (per lo più sulla morte, la propria e quella dei propri cari), a crocevia in cui prendere decisioni sensate si svela solo un’illusione di menti ottuse o imbrigliate in schemi sociali mortificanti, in cui la mente arranca per non perdere il controllo di un corpo in cui di solito si definisce (o che di solito si definisce come) la posta in gioco, l’unico teatro in cui può andare in scena la commedia umana, concitata, spesso grottesca, ma sempre degna di essere raccontata.