Gabe Klinger: in Porto c’è la solitudine e la necessità della memoria

img_1028Jake (Anton Yelchin, qui alla sua ultima interpretazione), americano, e Mati (Lucie Lucas), francese, si incontrano in varie occasioni nella città di Porto, dove entrambi vivono da tempo, finché in un bar lui le si avvicina e lei, che lo aspettava, si fa accompagnare in un posto. Passano così una notte di passione in cui sembra che queste due anime gemelle si siano ritrovate e siano destinate a non lasciarsi mai più. Presentato in concorso alla 34 edizione del Torino Film Festival, il film – diretto dal brasiliano Gabe Klinger (alla sua opera seconda, dopo aver vinto la sezione Venezia Classici per il documentario Double Play: James Benning and Richard Linklater nel 2013) e prodotto da Jim Jarmusch -, non ha un andamento lineare, ma fa rivivere la storia aggrappandosi ai ricordi, a quello che è stato, che è e che poteva essere. Girato in 8, 16 e 35 mm, è un omaggio al cinema del passato: nei lunghi ringraziamenti finali vengono citati Chantal Akerman e Manoel De Oliveira, ma ci sono riferimenti a Jean Eustache, a Jean-Luc Godard… Klinger, che ha un passato di critico cinematografico, sa di cosa sta parlando. Ecco cosa ha detto nel dibattito con il pubblico alla fine della proiezione.

 

La pellicola

Quello che mi interessava era lavorare con diversi formati di pellicola per trasmettere un senso diverso del tempo e anche per narrare una storia che andava contro l’intuito. Con Porto sono stato a molti festival, questo è l’ultimo. Dopo Torino tornerò a casa e dirò addio, non solo ai personaggi che mi hanno accompagnato in tutto questo tempo, ma anche al modo di girare, quindi mi congederò dalla pellicola tanto più che adesso ci troviamo nell’era digitale. La pellicola era il mezzo migliore per parlare di personaggi bloccati nel tempo, che non riescono ad andare avanti.

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La musica

La musica permette di tirare fuori il vissuto interiore dei personaggi. L’abbiamo aggiunta in fase di montaggio e ho avuto un ottimo consulente musicale, Daniel Vila, che mi ha fatto ascoltare alcune canzoni di Emahoy Tsegué-Maryam Guèbrou, una suora di origine etiope, che ora vive a Gerusalemme, di una cultura molto distante dalla mia e dal posto in cui ho girato il film, ma che si adatta alla perfezione al vissuto interiore di Mati e Jake.

 

Porto

Inizialmente avevo pensato ad altre città, poi un amico produttore mi ha suggerito Porto. Ci sono andato con il mio direttore della fotografia, avevamo pochissimi soldi e ci siamo messi a vagare per la città pensando ai film di Manoel De Oliveira che è di Porto. I suoi film sono stati come una mappa visiva che ci ha permesso di muoverci nelle stradine. Ci siamo resi conto che Porto rappresentava la situazione portoghese generale con l’economia depressa, quarant’anni di dittatura, una città bloccata proprio come i nostri due personaggi bloccati in un momento. Tutti cercano di ritrovare il legame con il presente.

La solitudine

Dal punto di vista degli esseri umani tutti noi viviamo esperienze completamente diverse che ci conducono tutte allo stesso punto, non mi riferisco solo alla morte, ma alla solitudine. Penso a Mati e a sua madre, per quanto siano diverse le esperienze e le generazioni, alla fine si arriva, in entrambi i casi, alla solitudine. Per me quella è una scena fondamentale perché è un omaggio a La maman et la putain di Jean Eustache, una grande fonte di ispirazione. L’attrice che interpreta la madre di Mati è infatti Françoise Lebrun, la protagonista del film di Eustache.

 

Il tempo

Il tema della memoria, del ricordo non è stato così sperimentato al cinema, soprattutto nel cinema contemporaneo si vedono e realizzano moltissimi film di duro realismo, come, per esempio fanno i fratelli Dardenne. Intendiamoci, è un cinema che amo, ma lamento una perdita del cinema della soggettività, del tempo, del passato anche per giocare con questo aspetto, perché il tempo nel cinema è assolutamente fondamentale.

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