Il lungo addio di Elio e le Storie Tese: siamo un gruppo sciolto che cammina

“Elton John ci mette tre anni per salutare, a noi basta molto meno”. Con la consueta ironia, solo contaminata da un pizzico di commozione, Stefano Belisari in arte Elio – frontman di Elio e le Storie Tese, band tra le più originali mai espresse dalla musica italiana – conferma che siamo ai titoli di coda. Il lungo addio di EELST, dopo trentotto anni di intensa attività e moltissime soddisfazioni, è un tour partito il 20 aprile dal PalaGeorge di Montichiari, che terminerà, dopo una manciata di live disseminati per la penisola, al Festival “Collisioni” di Barolo, il 29 giugno. È sempre Elio a spiegarci perché quello del 19 dicembre scorso al Mediolanum Forum non è stato – come invece avrebbe dovuto essere – il concerto di chiusura: “Molti fan non hanno trovato i biglietti. Poi è arrivata la chiamata di Claudio Baglioni per Sanremo e non abbiamo saputo dire no all’occasione di arrivare finalmente ultimi al Festival, cosa puntualmente avvenuta. Un tour che portasse con sè una data di scadenza (non oltre il 30 giugno, ndr), ci è sembrato il modo migliore per uscire definitivamente di scena”.

 

Non ci saranno ripensamenti?

Non ce ne saranno: siamo “un gruppo sciolto che cammina”. Il pubblico vuole (giustamente, peraltro) che Elio e le Storie Tese facciano cose in stile Elio e le Storie Tese; ma alla lunga questo diventa una gabbia, un limite. Viviamo il tour come una riaffermazione di libertà.

 

Il futuro è preparato?

Non c’è nulla di pianificato, come sempre nella nostra carriera. Credo che in ciascuno dei membri della band ci sia però la voglia di esagerare, come non abbiamo potuto fare in questi anni di molti impegni.

 

Da classici come Cara ti amo e John Holmes (una vita per il cinema) fino ad Arrivedorci, il brano che ha conquistato la “maglia nera” a Sanremo, sono passati quasi trent’anni: cosa è cambiato?

Il nostro aspetto e lo stato civile, la presenza dei figli. Ma nella testa, non è cambiato nulla. Libero
di non crederci, ma entusiasmo e voglia di suonare sono le stesse degli esordi.

 

Arrivedorci esprime il senso della fine di ogni cosa, per bella che sia, ma non è stato capito; come forse non è stato del tutto capito Il circo discutibile, l’altro inedito contenuto nel vostro ultimo album. L’avevate messo in conto?

Assolutamente. Volevamo la maglia nera al Festival, chiudere con qualcosa di cui poterci vantare. Ci siamo riusciti: tutto il resto, è grasso che cola.

 

Tra le molte pagine belle di EELST, quella brutta è sicuramente la scomparsa di Feiez…

Tristissima, ma pure intrisa di bellezza: Feiez è morto suonando, ed in seguito è come se fosse stato sempre con noi. L’applauso spontaneo tributatogli al concerto di Milano in dicembre è qualcosa di meraviglioso. In questo tour la sua presenza sul palco è ancora più tangibile: in scena c’è il gonfalone di Crema, la sua città.

 

Giunti al passo d’addio, potete sbilanciarvi: vi sentite davvero così vicini a Frank Zappa, come vuole molta critica italiana?

Zappa è stato un esempio dal punto di vista dell’impostazione, dell’attitudine. Ma non certo sul piano musicale: ciascuno di noi ha gusti propri, anche ben diversificati, che sono confluiti in una proposta oltre i generi, ma che ritengo sia stata originale.

 

Vedete eredi, all’orizzonte?

No, non vedo in nessuno lo spunto che ci anima. Certo, l’ambiente musicale attuale, così omologato, così poco attento alle differenze, non aiuta. Noi comunque non avevamo il problema del successo: è arrivato, e ringrazio Dio per questo. Ma ha sempre contato suonare, fare cose nuove e sperimentare, con sana follia. Il resto è superfluo.

 

La prima volta a Sanremo

 

Il live – (PalaGeorge di Montichiari, Brescia – 20/04/2018)

Fedeli alla linea e alla propria storia, quindi originali, irriverenti, antidepressivi. Elio e le Storie Tese intonano il canto del cigno in uno di quegli show pieni di tante splendide cose a cui ci hanno abituato in trentotto anni di carriera. Il lungo addio davanti a un pubblico numeroso – ma non da tutto esaurito, perché anche i saluti prolungati un poco stroppiano – è un concerto come di consueto interminabile, coloratissimo e privo di sbavature, ricco di cacofonie e portentose polifonie, di musica meravigliosamente suonata, con testi e dialoghi dissacranti, sapidamente scorretti. Il prologo esplicita che siamo ai titoli di coda: ha la struttura di una bizzarra cerimonia funebre allestita per Elio, Faso, Cesareo, Christian Meyer, Jantoman e Carmelo, con la partecipazione di Mangoni e Paola Folli, un pensiero immancabile per l’assente (ormai) cronico Rocco Tanica e la spiritual guidance del compianto Feiez, evocato con ripetuti cori della platea (“Forza Panino!”) e attraverso il gonfalone di Crema, la sua città. Sul palco di Montichiari va in scena la prima delle ultime volte (l’ultima delle ultime sarà a Barolo, come più volte annunciato) e la band segue quel criterio antologico che è quasi sempre stato il filo conduttore delle esibizioni dal vivo: Servi della gleba e Burattino senza fichi, i primi brani, sono d’altronde la sintesi perfetta di una proposta forse unica nel suo genere. Per contro, La vendetta del fantasma formaggino, con la sua aria da gioco infantile, se non addirittura da barzelletta dell’asilo e la veste irresistibilmente citazionistica, è la Bohemian Raphsody, o magari il The Grand Wazoo di EELST, secondo un’attitudine alla Frank Zappa che essi non hanno seguito pedissequamente, ma rielaborato in personalissima chiave. Cateto è poco più che un divertissement per amatori, ma La follia della donna, Fossi figo e Il vitello dai piedi di balsa (ripresa un paio di volte nel corso della serata) confermano la sottovalutata, cangiante, estensione della voce di Elio, che saprebbe conferire sapore e sentimento perfino a un elenco del telefono. Non dispiace, inserita in un contesto articolato una pagina inedita che aveva suscitato qualche perplessità al primo ascolto, come la malinconica Il circo discutibile (firmata da Tanica), ma quelle più sorprendenti e applaudite restano le classiche: su tutte, ancora una volta, la superlativa Born To Be Abramo – che centrifuga canti ecclesiastici e Born To Be Alive, hit del 1979 targata Patrick Hernandez – qui impreziosita con la variante di una plateale lap dance in stile burlesque improvvisata da Mangoni. Allegro con un pizzico di nostalgia e con il retrogusto amaro, intensamente struggente, di tutte le cose belle che finiscono, il rito collettivo celebrato dagli Elii dura circa tre ore e conquista il PalaGeorge pper l’ultima volta. Grazie davvero, a tutti e a ciascuno di loro, per la magnifica avventura.