L’attore olandese non poteva e non voleva liberarsi di Roy Batty, il personaggio che gli aveva regalato l’immortalità cinematografica. In occasione del ritorno di Blade Runner al cinema (sottotitolo: The Final Cut) lo avevamo sentito.
Si dice che quando Ridley Scott era in fase di casting per Blade Runner avesse una sola certezza: avrebbe fatto di tutto per avere Rutger Hauer nei panni di Roy.
Un giorno il mio agente mi ha chiamato dicendomi che avevo un copione da leggere e che il progetto era molto solido e in avanzata fase di produzione. Non sapevo niente della predilezione di Ridley nei miei confronti. Da quella lettura rimasi impressionato dalla potenza del personaggio e dalle enormi possibilità che si aprivano con quella storia. Al primo incontro Ridley mi disse che quello non era solo un film di fantascienza, ma il tentativo di contrappore il genere umano a dei personaggi che “andavano a batteria”. Rimasi un po’ perplesso ma anche molto affascinato…
Le riprese sono nella leggenda: lunghissime e martoriate dalla pioggia…
Il film era molto ambizioso: volevamo plasmare il futuro. Perciò le scenografie, i set avevano un’importanza incredibile. Per creare un set ci volevano 5 o 6 giorni, magari per girare meno di un minuto di film. Noi attori attendevamo, sempre e con pazienza. Mi ricordo tantissima acqua, molto fumo e intere giornate attraversate da un’atmosfera davvero cupa. Però tutte le mattine andavo sul set convinto di dovere creare una realtà nuova e affascinato dal fatto che con Ridley lo scambio era continuo: ti dava moltissimo ma stava a te restituirgli la tua visione delle cose, la tua rilettura. Era un dialogo altamente eccitante.
Avevate la percezione di stare disegnando un immaginario che sarebbe divenuto un classico?
Lavoravamo su un prolungamento della realtà, la base era il pensiero di Philip K. Dick (lo scrittore autore del racconto Do Androids Dream of the Electric Sheep? da cui è tratto il film). Eravamo tutti consapevoli che l’immaginario di Dick ci avrebbe portato lontano. Abbiamo cercato di andare nel futuro tenendo i piedi nel presente.
Harrison Ford racconta di avere molto combattuto sul set di Blade Runner…
Dei quattro mesi di riprese ho passato con Harrison soltanto cinque giorni. Quindi per me è difficile entrare nel suo rapporto con Ridley. I due erano divisi dal fattore british, dal fatto di avere due mentalità che viaggiavano a velocità differenti. Harrison non è riuscito a leggere nella mente del regista perché aveva un suo approccio al personaggio già formato. Aveva le sue convinzioni, si è presentato sul set avendo già lavorato sul ruolo. Sono scelte da rispettare, ma per me il suo personaggio in alcuni passaggi sembra una sorta di cartoon. Alla fine Scott era comunque entusiasta del suo lavoro e questa è l’unica cosa che conta.
Fra le tante scene tagliate, quale le manca di più?
È una scena che già dal primo giorno sapevo che non sarebbe entrata nel montaggio finale. Roy chiede a Sebastian di essere portato da un “vero uomo”. Ci rechiamo in un attico e qui vedo i fusibili che hanno dato origine al mio essere replicante e in quel momento comprendo che la mia vita è legata a una batteria che prima o poi finirà con lo scaricarsi. Mi è spiaciuto molto che la scena sia scomparsa perché sarebbe emerso che il mio personaggio non era solo un guerriero ma amava la vita ne apprezzava il valore e la bellezza, aveva un cuore.
Come è nato il monologo:”Ho visto cose che voi umani…”?
L’abbiamo girata l’ultima notte di riprese, conclude in tutti i sensi il film ed è anche una proclamazione della mia personalità. Nella sceneggiatura il monologo era molto lungo e non avremmo mai potuto metterlo interamente. Ero un personaggio artificiale e non potevo permettermi una chiusura da opera, lenta, con un incedere solenne. Dovevo essere velocissimo e dare l’idea che Roy fosse all’ultimo ballo dato che sapeva di dover morire. Fra molte pagine potevo scegliere un paio di frasi. Forse le ho azzeccate.