Abbiamo incontrato Andrea Segre a Palmi, una delle sue tappe previste per la promozione del suo nuovo film Noi e la grande ambizione. Attento osservatore della realtà politica che l’Italia sta attraversando, il regista padovano si conferma portatore di un controllato ottimismo sulla possibilità di superare una impasse della politica. C’è una voglia di partecipazione da parte delle giovani generazioni, ci dice, ma che non sia marchiabile con un simbolo, con una sigla: solo da qui può partire un rinnovamento partecipato.

Con il tuo film hai attraversato l’Italia e questo film-documentario ne è il resoconto e da quello che abbiamo visto c’è una voglia di politica tra i più giovani, che però sembra diventare condiviso solo sulle grandi questioni internazionali e mi riferisco alla Palestina. Sulle questioni che riguardano la sanità, la scuola, i salari bassi, la precarietà nel lavoro non si trova una partecipazione così numerosa e le energie individuali non diventano condivisione collettiva.
Credo che le vicende come quelle della Palestina, i movimenti sulle questioni ambientali, delle donne hanno creato momenti di alta emotività e quindi di grande passione, così come il mio film dimostra. Sono venuti decine di migliaia di ragazzi a vedere La grande ambizione e questo significa che stanno cercando qualcosa. Quindi questa sensibilità esiste ed è un fatto che poi queste sensibilità non trovino il modo di ritrovarsi perché non si può imporre ai più giovani di pensare alle forme di organizzazione novecentesche. Siamo in una fase di rinnovamento delle forme organizzative anche perché l’elemento nuovo che va valutato è l’intersezionalità. Oggi c’è la volontà di considerarsi liberi di appartenere a più soggetti partecipativi. Non è più essenziale il tema dell’appartenenza. D’altra parte però è anche vero che la grande organizzazione serve. C’è la necessità di definire nuove organizzazioni. C’è anche la necessità di persone capaci di catalizzare questa partecipazione. Forse senza Mamdani a New York quello che è successo non sarebbe avvenuto. Bisogna ripensare in questo senso la riapertura degli spazi dei partiti e dei sindacati e forse ricordare che Papa Francesco, se non sbaglio a Napoli, disse aprite le chiese e fate lavoro sociale, laboratori e altro.

Questo film trova la sua origine in La grande ambizione. In quel film c’è una straordinaria intuizione, che trovo molto bella, che è quella di raccontare il Berlinguer privato.
Si certo, ma è un Berlinguer privato collegato al politico, a quel “il personale è politico”. Nella politica è essenziale portare le emozioni, se diventa professionalizzazione è finita. Io voglio poter piangere per i bambini, per le donne, voglio, in altre parole, che nella politica ci sia una dimensione personale. Quindi quello che abbiamo messo in scena è il personale politico di Berlinguer.
Dopo questa esperienza credi che tra trenta anni sarà possibile raccontare un uomo politico di oggi, un leader?
Se ha le idee chiare direi di si. In questo momento chi racconterei? Non so forse l’unico che potrei raccontare è Mamdani. Perché dice delle cose chiare.

Anche Berlusconi diceva delle cose chiare…
Infatti li hanno fatti i film su Berlusconi… comunque l’importante non è fermarsi ai personalismi. Ci siamo detti con il mio produttore, il mio co-sceneggiatore Marco Pettenello e con Elio Germano che questo non doveva essere un film su Berlinguer. Doveva essere un film che ti dava degli strumenti per leggere il mondo e che oggi ti aiutava a capire in che guaio siamo. Quando Berlinguer diceva che bisognava uscire dai meccanismi automatici del mercato altrimenti la società diventa ingiusta e diseguale, di cosa sta parlando? Di oggi!
Torniamo a Noi e la grande ambizione, quello che ho apprezzato molto è la capacità di questi giovani di ascoltare. Una qualità che forse non è così diffusa e non lo era neppure nel passato. Questi ragazzi provano ad ascoltarsi oppure è solo un’impressione.
Si c’è questo, però è anche vero che questi incontri sono stati fatti seguendo delle regole. La prima era quella di spegnere i cellulari per due ore. L’altra era che si doveva parlare di oggi e non degli anni ’70 e io facevo da moderatore in difesa delle “minoranze”. Quando uno parlava troppo davo la parola a chi aveva parlato di meno. Quello che invece ho potuto notare è un’attenzione e una competenza che non è comune. Questo significa che si tratta di persone che queste cose le pensa e le ha elaborate. Questi parlano e pensano bene non per il mio film, ma perché lo fanno già da prima di comparire sul set.

Ci sono delle differenze tra sud e nord nell’affrontare questi temi o c’è un comune sentire?
No, c’è un comune sentire. Non ho sentito differenze, sarà perché in ogni città ho scelto delle persone differenti che diventano anche trasversali. Nel senso che c’erano delle tipologie all’interno di questi gruppi. Ma non posso dire che ci fossero delle differenze nell’affrontare i temi. Credo che in fondo le differenze tra sud e nord in Italia si stiano assottigliando e poi invece stanno entrando le differenze del mondo.
Avevi già in mente mentre giravi La grande ambizione di girare anche questo film?
No assolutamente. L’idea mi è venuta quando ho iniziato a percepire che il film stava generando un dialogo tra le le generazioni. Il film stava uscendo da quel dire “andiamo a vedere le nostre epoche”, cioè da quelle nostalgie inutili. Mi piace molto che una spettatrice abbia detto che questo film deve liberarci dalla nostalgia e un’altra dice va bene la nostalgia ma se è una nostalgia verso il futuro. Quando ho capito che il film stava andando in quella direzione e l’ho capito con chiarezza all’assemblea alla Sapienza che mi ha definitivamente chiarito qualcosa che avevo già in mente.

Come è stato il rapporto con Elio Germano, come sempre attore versatile e capace di entrare nei ruoli con straordinaria facilità?
Ho scelto Elio Germano perché è un grandissimo attore, ma anche perché ha il fisico giusto e poi perché ho condiviso con lui esperienze militanti assembleari. Sapevo che lui aveva voglia e capacità di raccontare anche quella dimensione della vita e non di celebrare il personaggio.
Questo film che legame ha con un film come Molecole, che abbiamo molto amato? Sono due film che guardano al padre. In uno la ricerca è esplicita, nell’altro Berlinguer può diventare un padre per chi padre non ha in questi tempi?
In verità non l’ho mai letta così, però ci sono delle cose di Berlinguer che mi hanno colpito pensando a mio padre. Entrambi sono morti per un problema cardiaco a 62 anni. Ma c’è anche un’altra cosa tra queste due figure ed è il rapporto con il silenzio. Dalle ricerche che abbiamo fatto, che sono state lunghe almeno due anni tra ricerche e scrittura, è emerso che Berlinguer era una persona che ascoltava in silenzio i problemi delle persone. Stava zitto e ascoltava. Mio padre faceva allo stesso modo.


