Xavier Dolan: impressioni di un enfant prodige

A 20 anni, nel 200mommy 29, era al Festival di Cannes con J’ai tué ma mère (scritto però tre anni prima). Lo scorso maggio divideva il Premio della Giuria dello stesso festival con Jean-Luc Godard, per Mommy, storia di una madre che, dopo aver abbandonato il figlio bambino perché spaventato dalla sua violenza lo riprende con sé adolescente e va a vivere con lui in un sobborgo borghese. In mezzo, il canadese Xavier Dolan aveva diretto e interpretato Les amours imaginaires e Laurence Anyways, portati anche loro sulla Croisette. Mentre a Venezia, nel 2013, si era presentato con Tom à la ferme: “Un thriller psicologico: dicono sia una cosa a metà tra Cane di paglia e Hitchcock. Non sono d’accordo”, ti raccontava lui, il francofono che Bernardo Bertolucci aveva presentato come “uno degli autori più dotati della sua generazione”. Tutt’oggi, Dolan resta il più giovane regista ad aver corso per il Leone d’Oro: “Ma in Canada mi conoscono come uno dei doppiatori de I Simpson: personalmente lo considero un onore”.

Però poi, in Europa, i suoi film fanno citare nomi illustri: per Les amours imaginaires si era parlato di Almodóvar , per Tom à la ferme di Hitchcock, per Mommy qualcuno aveva fatto il nome proprio di Godard…

 Non sono d’accordo. Almodóvar  l’ho scoperto dopo. E di Hitchcock, sinceramente, conoscevo solo qualche puntata dei telefilm che in Canada continuano a replicare. Godard? Non posso certo dire di essere cresciuto con lui.

E con che cinema è cresciuto? A Venezia, citava Jumanji come ispirazione per Tom à la ferme: una provocazione o la verità?

Non mi piace il concetto di ispirazione associato a un nome, qualsiasi esso sia. Io non sono Hitchcock, Almodóvar  o Godard e non li posso considerare modelli ispiratori semplicemente perché il mio sguardo non si è formato con loro. Sia Mommy che i miei film precedenti sono più influenzati dai magazine, dai libri di fotografia e di pittura. Semplicemente perché il mio immaginario estetico si è formato con loro. Per me andare a New York significa entrare nel bookstore del MOMA e fare incetta di libri d’arte, fotografare o fotocopiare immagini e portarle con me sul set perché voglio che nel mio film ci sia la stessa atmosfera.

 

È da questo che partono i suoi film, da un’atmosfera, più che dalla storia e dai personaggi?

Anche se le sceneggiature sono mie, io mi considero più un pittore che uno scrittore. Mi piace considerarmi alle prese coi colori: cerco sulla tavolozza i cromatismi giusti, quelli che assicurano il tono, l’atmosfera; che danno il carattere ai personaggi… In Mommy non recito, ma in Tom à la ferme sì: la domanda più frequente era perché io che sono castano avevo scelto di farmi biondo. Semplicemente perché volevo mimetizzarmi con i campi di grano che sono al centro del film. Non mi piace che mi si riconosca nei film che faccio: anche come spettatore non amo i registi/autori che riconosci subito. Mi piace scomparire nelle scene, nei loro colori, nelle storie. Trovo che Gus Van Sant sia uno così. Ecco perché non mi piace che qualcuno mi dica che somiglio a…: non amo i registi di cui si può dire fin dalla prima scena “ecco, questo è un film di…

Mommy è girato in formato 1:1. Una scelta tecnico/stilistica molto forte: perché?

Mi ricorda le copertinfilm.org_.pl_cannes-14-mommy-5-crop-780x515e dei cd, quelli con cui sono cresciuto: tutte 1:1. In realtà, colpisce solo perché non è molto usato: dicono che il pubblico non è abituato alle inevitabili bande laterali. L’ho scelto solo perché dal punto di vista psicologico aumenta l’immedesimazione: mettendo un solo personaggio nell’inquadratura, il pubblico si identifica ancora di più, si crea un link emozionale più forte. L’avevo usato in un video, College boy: Indochine, e mi era piaciuto molto il risultato. Trovo che semplifichi molto il rapporto tra il pubblico e il film che sta guardando. E io cerco la semplicità e la verità. I miei film non sono mai contorti o barocchi, ma immediati e quasi banali nel loro svilupparsi. Quindi veri, perché la vita, in fondo, si regge su principi elementari.

Amore/odio. Vita/morte. Individuo/società. Madre/figlio. Questo intende?

Direi soprattutto destino e scelte. Io però  non credo nel destino. E quindi non credo neppure nel ribellarsi a esso. Quella non è filosofia, ma semplicemente frasi da biscotti della fortuna. Credo nelle scelte che ognuno di noi fa.  Il destino sono le decisioni che tu, io, lui prende in ogni singolo momento. Questo mi piace della vita e delle storie che mi danno da vivere. Quando mi chiedono cosa penso dei commenti lusinghieri di Bertolucci o del fatto che sia considerato un enfant prodige, rispondo che mi considero semplicemente un lavoratore. E che mi piace lavorare duro e in fretta. Per questo faccio così tanti film, da regista, attore, doppiatore.  E poi c’è il piacere di dirigere attrici che stimo: Lise Roy in Tom, Anne Dorval che ha lavorato con me da J’ai tué a Mommy, Meryl Streep o Kate Winslet che mi sogno ogni notte. E Jessica Chastain e Susan Sarandon, con cui comincerò a girare The Death and Life of John F. Donovan, il mio primo film in inglese.

Visto che la madre è la figura ricorrente dei suoi film, chi delle due la interpreterà in questo caso?

Si tratta di una madre metaforica, stavolta: il figlio non è “naturale”. Sarà una storia ambientata nel mondo dello show biz, centrata sul rapporto tra una star americana e un attore/ragazzino di 11 anni. Anch’io ho cominciato presto e anch’io considero “madri” due donne che non erano la mia madre biologica. È come quando dicono che i miei personaggi sono violenti: per Mommy poi ho scelto un protagonista “malato” di violenza, parlo proprio dal punto di vista medico/fisiologico, non psicologico. In realtà per me la violenza non è genetica, non si nasce violenti. Si tratta di una forma di reazione al fatto che la società non ti accetta per quello che sei. Ecco che allora certi istinti bestiali, più che animali, emergono: era così per Tom, lo è per Steve in Mommy. È una cosa che ho vissuto anch’io, ma non vorrei fosse usato il termine autobiografismo.

Perché? 

Semplicemente perché io non ho ucciso mia madre, non ho mai avuto degli amori immaginari e perché alla fine l’autobiografismo non esiste perché è inevitabilmente dovunque. Se voglio raccontare la verità, come dicevo, non posso che focalizzarmi su quello che conosco. Io sono cresciuto con mia nonna e poi con la nuova compagna di mio padre e la sorella di lei che, lavorando nel business dello spettacolo, mi hanno instradato: anche se ho cominciato a fare l’attore da bambino, sono state loro a mostrarmi che poteva diventare un lavoro. Mommy è la prova che io non racconto me stesso.  Non racconto mia madre, ma la madre. Non a caso gli occhi che ci guidano non sono quelli del ragazzo/figlio, ma quelli di lei. E in questo Anne Dorval è perfetta, folle e incontenibile e perfetta. Perché la madre? È come chiedermi perché la vita: la madre è tutto, ci ha dato la vita e ci rende quello che siamo.

Ma alla fine scherzava quando citava Jumanji come “ispiratore” di Tom à la ferme?

No, perché io sono cresciuto con quel film che mi è entrato dentro gli occhi e ha formato la mia visione. Parlo sempre di estetica. È lo stesso con Titanic. In tv guardavo i film con Marlon Brando e James Dean, ma poi al cinema andavo per vedere Robin Williams e Leo DiCaprio. O i Batman di Christopher Nolan. Anche se per Mommy ho ripensato anche a me stesso davanti a Lezioni di piano e Magnolia: era come se, sul set volessi identificarmi con James Cameron, Jane Campion, Paul Thomas Anderson. Ma semplicemente perché nei miei occhi ci sono i loro…

Veronica Garbagna