L’ultimo film di Jacques Audiard, Dheepan – Una nuova vita, Palma d’oro al Festival di Cannes 2015, non è un noir in senso stretto. Non è neppure estraneo al genere come spesso il cinema del regista, che in passato ne ha anzi ridefinito i connotati. Sulle mie labbra (2001), scritto con Tonino Benacquista poi autore del libro Malavita (2006), racconta la storia di un galeotto in libertà vigilata e dell’impiegata sorda di un ufficio urbanistico: il primo userà la seconda per fini criminali (sapendo leggere le labbra, scopre uno scambio di denaro tra gangster), la seconda userà il primo per fini sessuali e per vendicarsi di certe angherie in ufficio. Una mutua manipolazione tra personaggi interpretati da attori (Vincent Cassel, Emmanuelle Devos, Olivier Gourmet…) con la scritta “polar” stampata in faccia. Il profeta (2009), tra i rari capolavori del millennio, è un prison movie con le sue dinamiche, e si basa su un soggetto di Abdel Raouf Dafri (anche cosceneggiatore insieme a Audiard e Thomas Bidegain) che poi scriverà tutta la seconda stagione della migliore “série noire” francese recente, Braquo. Il profeta racconta di un giovane carcerato musulmano semianalfabeta che diventa “schiavo” del boss corso della prigione ma intanto coltiva buoni rapporti con la malavita maghrebina. Ambiguo con entrambi, impara: a leggere, a scrivere sia in arabo che in francese, a capire la lingua franca dei banditi corsi e alla fine a primeggiare come un titano, o come appunto un profeta, capace di manipolare il mondo fino a “prevederlo”. Motivi ricorrenti dell’impianto narrativo audiardiano: gente che finge e impara, piega un contesto ostile alla propria dimensione.
Non è difficile applicare il medesimo schema a Dheepan – Una nuova vita, dove addirittura il protagonista la sua dimensione la disegna sul terreno a mo’ di invalicabile linea di confine. Lui, tigre Tamil, una compagna sconosciuta e una bambina altrettanto ignota, fuggono dall’inferno cingalese e sbarcano in una anonima banlieue. Non sanno il francese e non sono una famiglia, ma fanno finta. Di fronte alla militarizzazione dell’isolato da parte delle gang Dheepan, il nostro Lui, torna a fare la cosa che ha sempre fatto: la guerra. Siccome Audiard è molto bravo, neanche i detrattori possono relativizzare la densità estetica del suo cinema. Le scene di guerriglia sono originali e coinvolgenti, travalicano il naturalismo stereotipato del genere, aprono squarci onirici (ma uccide davvero Dheepan? e l’ultima sequenza, è un sogno?). Per questo il film è considerato “d’autore” e vince Cannes. Apriti cielo. I Cahiers du Cinéma, numero di settembre 2015, lo demoliscono nella cornice di uno speciale sul vuoto politico del cinema francese. Del quale proprio Aurdiard (e i suoi sceneggiatori Noé Debré e Bidegain, trattati come la rivista mezzo secolo fa trattava Jean Aurenche e Pierre Bost) sarebbe il maggiore responsabile, perché più bravo e più premiato. I Cahiers (qui nella persona di Stéphane Delorme) non sono mai banali anche quando apocalittici. Un po’ velleitari sì, però: come si fa a discutere ancora della «colonizzazione americaneggiante dei clichè» che avrebbe corrotto la cinematografia nazionale? La banlieue ridotta a terra senza legge e l’uomo dal passato che implacabile e immancabile ritorna sono clichè (noir), ma con questa dialettica tutto può essere ridotto a clichè. Anche il secondino corrotto di Il profeta e la stessa prigione fanno parte della geografia del noir. Sono i luoghi comuni, e non i problemi sociali, il décor del cinema di Audiard, il suo oggetto di manipolazione. Un po’ come il «polar mezzo di trasporto» di Claude Chabrol o la distopia per tanti autori di fantascienza: espedienti e pretesti per raccontare di uomini e donne in condizioni estreme. Ad esempio: in un film all’apparenza lontano dal noir, Un sapore di ruggine e ossa (2012), ritorna un luogo topico come la boîte (il discopub che vive di notte). Gli stereotipi narrativi o iconografici si prestano a strumentalizzazioni politiche? Certamente, è possibile. Possono essere delle scorciatoie, portare alla schematizzazone di situazioni complesse (flussi migratori, scenari di banlieue) quindi favorire letture demagogiche e semplicistiche. Ma Dheepan – Una nuova vita racconta (in modo magistrale) la storia di un uomo, una donna e una bambina. Forse la perdita di peso specifico della valutazione umanistica, dimostrata molto spesso anche dai Cahiers, si misura nel fatto che pare non interessare nessuno, o quasi. Di fronte a un film così, concentrarsi sull’utilizzo dell’ambiente o su una presunta distorsione politica equivale a riflettere sul dito che mostra la luna, dimenticandosi della luna.