Un cane e un gatto giocano, si fanno dispetti, rincorrono, teneri e inseparabili. Proprio come facevano in un tempo lontano e negli stessi luoghi un altro cane e un altro gatto. Una scienziata compie il suo lavoro di ricerca e documentazione con strumenti per rilevare i cambiamenti climatici effettuando gli stessi gesti di una sua collega che decenni prima la precedette in quell’attività solitaria. Flussi d’acqua scorrono da monte a valle, creando canali fra le rocce, nella stagione del disgelo oggi come ieri. Accade nella stazione glaciologica situata a 3500 metri sul ghiacciaio Tuyuk-Su, tra il Kazakistan la regione cinese autonoma dello Xinjiang. Set alieno del film più recente del cineasta lituano Audrius Stonys Woman and the Glacier (2016, in concorso alla 65ª edizione del Trento Film Festival), abitato in totale solitudine dal 1982 al 2014 dalla glaciologa lituana Ausrele Revutaite. La donna e il ghiacciaio. Lo spazio e il tempo. E il cinema. Con la semplicità che appartiene ai grandi maestri, con l’intensità formale rigorosa che scaturisce sempre dall’ascolto appassionato tanto della materia umana quanto di quella degli ambienti, della natura, entrambe abbracciate in indelebile sovrimpressione, Stonys osserva, apre i sensi alla ricezione, filma con la potenza e la flagranza di uomo con la macchina da presa delle origini, pioniere odierno di un moderno/antico cinema muto che ben conosce nel profondo la forza delle immagini. Da sempre, da quando negli anni Ottanta ha avviato una delle filmografie più sorprendenti nel segno di un documentario fuori dagli stereotipi. “I suoi film formulano un discorso filosofico ed estetico che parla e si organizza attraverso l’osservazione dei suoi personaggi, la rappresentazione del silenzio, l’estatica contemplazione dell’accadere delle cose”, scrive, con limpida sintesi, Grazia Paganelli nel volume da lei curato Una diagonale baltica dedicato a “cinquant’anni di produzione documentaria in Lettonia, Lituania ed Estonia” per la retrospettiva organizzata nel 2008 dal Festival dei Popoli di Firenze.
Ogni immagine di Woman and the Glacier è inscritta nel tempo immobile e nello spazio infinito (condensato nella stra-ordinaria immagine finale: una farfalla incastonata nel ghiaccio che la circonda, tutt’uno con esso, prima di svanire, dissolversi al suo interno e volare altrove, mentre la luce sfuma nel buio e le gocce ghiacciate si trasformano in cosmo). Tempo immobile nel corso del tempo, della Storia, delle stagioni. E doppiamente immobile, lassù in quella base scientifica e nei suoi dintorni resi fantascientifici, e da dove affiorano memorie di cinema (si pensi agli scienziati herzoghiani di Incontri alla fine del mondo o a quelli carpenteriani de La cosa…), dallo sguardo al tempo stesso espanso e nitidamente concentrato di Stonys. Ci troviamo in un altrove plurale che Stonys fa dialogare con passaggi fluidi. Esemplari sono gli scivolamenti tra presente e passato per esprimere, fuggendo qualsiasi funzione didascalica, l’immobilità del tempo nel senso della sua intima ripetizione. Fa entrare in contatto, Stonys, le immagini da lui filmate a colori e in alta definizione con quelle tremolanti e in bianconero trovate in archivi; in tal modo conosciamo le incredibili analogie fra i cani e i gatti, le due scienziate, le azioni della natura. Montagne. Rocce. Terra. Nuvole. Neve. Nebbia. A incorniciare scene o inquadrature non contaminate dalla parola (a proposito di cinema muto: nel film la voce compare solo due volte – nella scena in cui Revutaite chiama a sé il cane e in quella dove ricorda la preparazione del dolce di patate, ma, con scelta precisa, in voce off, indiretta, anche qui per nulla documentaria) e tracciate da suoni e rumori e da un uso pertinente e parsimonioso dell’intervento musicale. Stonys si addentra in grotte di rocce e ghiaccio, caverne e cunicoli che invitano a entrare in altri mondi, ad avventurarsi nella prosecuzione dei viaggi filmici visionari intrapresi da Werner Herzog o dallo Steven Spielberg archeologico/stellare. Filma totali mozzafiato all’interno dei quali si compongono ulteriori linee di confine e orizzonti. Rocce che cadono staccandosi, volando come fossero astronavi, frantumandosi in un crescendo di detriti. Non si può non pensare a un altro cineasta lituano, Sharunas Bartas, al suo Lontano da Dio e dagli uomini. Anche qui non si tratta di citazioni, bensì di film che si cercano. Come quelli di Stonys, gli occhi di Ausrele Revutaite guardano, osservano, vedono. La mutazione tragica degli equilibri del pianeta. Entra nel film come uno shock la violenza e la volgarità di un turista russo, con una giovane donna silenziosa che lo accompagna e fotografa (in questa scena ci sono gli unici dialoghi del film, brutali quanto i comportamenti dell’uomo), che con la sua jeep si inerpica per quegli sterrati d’alta montagna urlando il suo orgoglio di trovarsi lì, inconsapevole che quelle urla terremotano la natura. Woman and the Glacier è un addio, accompagna la scienziata nel suo distacco, sul furgone che scende a valle, con le lacrime mentre osserva la sua terra. Terra che circonda anche il suonatore di dambra Bilal Iskarov che con la sua musica tradizionale intervalla la narrazione. Ulteriore rappresentazione di sospensione che (ri)produce memorie.