Un film incompiuto, o meglio in-finito, reiterazione di un errare errando che gioca a non stare al gioco del cinematografare: si parla di Franco Maresco e della sua rinnovata opera interrotta, Un film fatto per Bene (in competizione a Venezia82), stratagemma realfinzionale che ancora una volta spiazza, anzi spazza via la struttura istituzionale della forma film: né documentario né finzione, né realtà né fantasia, né (auto)agiografia né (auto)ironia… Resta il consueto cinismo microapocalittico, il piacere di perdersi nella fine del mondo che corrisponde alla fine di sé. La focalizzazione è astratta, perché Maresco autore scavalca il Maresco soggetto di Un film fatto per Bene, i frammenti di girato sovrastano il girato frammentato che accorre a completare l’opera. La quale doveva notoriamente essere un film su Carmelo Bene e su San Giuseppe da Copertino, due pugliesi volanti, un poeta iconoclasta e un santo che levitava in estasi, da filmare in pellicola bianco e nero: materiale incandescente di poesia inversa, compresa la geniale apparizione di un Antonio Rezza in versione Morte bergmaniana che gioca a scacchi col santo…

Ecco, il santo che vola: il punto è che un brutto giorno cade dall’alto del suo volo scenografico e crea non poco scompiglio sul set, che già di suo aveva preso il verso sbagliato, scivolando su un piano di lavorazione divenuto carta straccia per stare dietro ai capricci del regista (ipse dixit…). Occhipinti da Lucky Red decide infine di staccare la spina e il film svanisce in quello che Maresco, prima di eclissarsi, chiama un “filmicidio”. Questo per dire che in realtà il tutto è raccontato e mostrato da Umberto Cantone, aiutante e amico di Maresco, partito in cerca del Maestro per tentare con tutte le forze di salvare il film. Che a questo punto è più suo (almeno sul piano della narrazione) che di Maresco: seguono infatti varie vicissitudini, esposte non prima che sia fatto un riassunto delle puntate precedenti della carriera mareschiana, da Cinico TV in avanti, tra successi televisivi e aggressioni della censura. Arrivando infine a scoprire che la fuga di Maresco dal set era in realtà finita negli studi della televisione privata palermitana da dove tutto era nato, con l’intenzione di salvare il film ritrovando lo spirito degli inizi, con altri attori e nuove vittime sacrificali dell’universo cinico. Nulla che valga a fargli ritrovare davvero la voglia di concludere questo Film fatto per Bene, tanto da spingerlo a una nuova fuga che finisce rossellinianamente tra i fraticelli di un convento, che accolgono lui e il suo voto del silenzio…

Seguono agnizioni, perdonanze e ascensioni, a chiudere un’opera che s’invola in se stessa e precipita (gioiosamente, se si sta al gioco) nello sguardo dello spettatore: lo slittamento di piani tra la verità vera e quella artificiale equivale allo spostamento di prospettive tra la finzione cercata dall’autore per il suo film e quella precipitata sul suo set dall’alto delle sue pratiche. La connivenza dei personaggi che mette in scena corrisponde a una convivenza nello stesso spazio espressivo? O Maresco crea una sovrastruttura di autentico disprezzo per il mondo che rappresenta? La linea semantica che produce, basata sullo scostamento ironico e la ricaduta cinica, è coerente con le sue intenzioni espressive? O finisce vittima di una ricerca dell’inconclusione assunta come posa artistica? Il punto effettivo è che la poetica di Maresco si incarna integralmente in questi interrogativi, lasciando la struttura diegetica fuori campo, dispersa nel tempo di una assenza dell’autore che diventa afasia. Indubbiamente, la capacità di tenerci in bilico su tutto ciò merita considerazione, ma la distanza tra la funzionalità espressiva e la strategia comunicativa si va accorciando sempre più e di questo bisogna pur tener conto.


