C’è il danno e c’è la riparazione, c’è soprattutto il rapporto con la dimensione del mito che sfasa le coordinate, annulla spazio e tempo nell’arco impercettibile di un secondo: Benvenuti a Marwen dove Robert Zemeckis fa confluire tutto il suo cinema e lo dispone sulla linea teorica di una narrazione che, ancora una volta, copre la distanza tra l’eroe e ciò che fa di lui un uomo. Come Forrest Gump, Mark Hogancamp è il paradosso cui la realtà si adatta, forma plastica del dissidio zemeckisiano tra statuto del vero e manipolazione della realtà, l’eureka che accende Emmett Brown in Ritorno al futuro: alle spalle un passato che conta poco, e non solo perché non lo ricorda più, da quando, ubriaco fradicio, Mark s’è ritrovato a terra, picchiato selvaggiamente da un branco di idioti nazistoidi che lo hanno ridotto in fin di vita. Il passato di Mark Hogancamp (che, fatto di certo non secondario, è una persona reale) è lo spettro di un ricordo doloroso che lui performa in eroica miniatura, proiettandolo a Marwen, immaginaria cittadina belga popolata da sole donne e occupata dai nazisti. E Marwen è lo scenario dell’eroica resistenza del suo alter ego, il Capitano Hogie, lo spavaldo pilota dell’aviazione americana: una bambola anche lui, come tutti gli altri abitanti del villaggio, nel cui corpo plastificato Hogancamp proietta la realtà che lo circonda e rifonde se stesso.
Il livello della narrazione è perfettamente doppio e spinge Zemeckis al suo solito equilibrio tra la dimensione reale del mito e quella fantastica della realtà, in armonica controbattuta tra mondi paralleli, stratificazioni dimensionali che sono anche stratificazioni visive. È evidente che il mondo di Marwen, con gli edifici e gli oggetti in scala e Hogie e le altre bambole in posa per le foto scattate da Hogancamp, è un passo indietro ma anche un passo avanti rispetto all’universo del morphing abitato da Zemeckis per una stagione, disloca nella plastica materialità del puppet l’immaterialità del corpo digitalizzato. Ed è proprio su questa linea che Zemeckis fa muovere il suo film, offrendo alle ferite del suo eroe la riconciliazione con l’immagine di sé, quel contatto tra opposte dimensioni, tra scale differenti di realtà, che quantifica la distanza tra la carne e lo spirito. Marwen è un luogo che sta a pochi passi da Pensacola, lo spazio immaginario offerto in Contact a Ellie Arroway, alla sua riconciliazione con la figura paterna, alla sua memoria perduta negli istanti di rumore bianco emersi nella registrazione del suo viaggio verso Vega… Benvenuti a Marwen rende concreta e visibile la contemporaneità zemeckisiana tra lo spazio e il suo altrove spirituale, la proiezione poetica eppure fisica di cui la realtà necessita per essere realizzata, anche solo per un istante, come idealità. La linea che unisce Hogancamp e Philippe Petit sta esattamente nei passi cauti e precisi che il primo compie tra le case in scala di Marwen e il secondo sul cavo teso tra le Twin Towers. La visione del primo è la stessa del secondo, che infatti riproduceva in miniatura lo spazio in cui trovare il suo equilibrio. Hogancamp il suo equilibrio lo trova nell’articolazione di un duplice universo, reale e immaginario, in cui ricomporre lo strappo tra passato e presente, tra ferita e cicatrice. Il dialogo tra la scena reale e quella immaginaria di Benvenuti a Marwen è come quello di Chuck Nolan con la palla Wilson in Cast Away o, se preferite, come la corsa senza fine attraverso l’America di Forrest: lo spazio di un contatto tra la proiezione di sé nello spazio immaginario e la realizzazione di un’idea nello spazio fisico. È qui – a Marwencole, a Pensacola o a Cartoonia se volete… – che sta ancora e sempre il cinema magnifico di Robert Zemeckis: un passo più avanti di ogni realtà, in equilibrio sul filo che governa l’Uomo.