Berlinale 69 – Campi lunghi nella steppa: Öndög di Wang Quan’an

Un cameracar nell’aurora della steppa mongola. I fari del fuoristrada tagliano il buio della notte e l’erba secca mentre i primi bagliori del giorno tinteggiano l’orizzonte, la polvere di una mandria di cavalli selvatici che corrono spaventati si leva inattesa, poi le voci fuoricampo dei poliziotti che perlustrano la zona si zittiscono all’improvviso quando tra gli sterpi si intravede all’improvviso il corpo nudo di una donna, riversa immobile. E’ l’incipit di Öndög, il nuovo film di Wang Quan’an, che torna in Concorso alla Berlnale 69, dove nel 2006 aveva vinto l’Orso d’Oro con Il matrimonio di Tuya: lo spazio sterminato percorso dall’inquadratura in movimento sul quale il film si apre è l’unico momento in cui la tensione visiva si realizza nella profondità, per il resto Wang Quan’an compone Öndög sulla prevalente scrittura della distanza, lavorando sul campo lunghissimo di un’immagine che scruta l’orizzonte cercando il dettaglio con le focali lunghe, lavorando sulla distanza indagativa di un’osservazione antropologica. Attorno a quel corpo inerme disteso nella steppa il film costruirà, infatti, una parabola che dalla morte riconduce alla vita: Öndög è la storia di una rinascita che nulla o quasi ci dirà di quella donna rinvenuta cadavere nella notte, ma molto ci racconterà di un’altra donna, che vive da sola con le sue capre da quelle parti, chiamata dalla polizia per allontanare una lupa dal cadavere e per assistere nella notte il giovanissimo poliziotto lasciato di guardia.

 

Il freddo, l’alcol, il tempo astratto creato dal buio illuminato dal fuoco acceso creeranno un tempo astratto, arcaico, in cui la donna della steppa e il ragazzo in divisa finiranno col fare l’amore. È lo strappo alla solitudine cercata dalla contadina nella steppa, che aprirà il racconto alla nascita di una nuova vita e alla conquista per lei di una identità tutta sua, fatta di maternità e finalmente di una relazione libera e paritetica con un uomo che sin dall’infanzia la ama pazientemente, aspettando che lei sia infine pronta ad accoglierlo nella sua tenda. Wang Quan’an insiste sulla libertà dello spazio sterminato, sulla distanza di un mondo arcaico in cui le funzioni sociali sono azzerate nella determinazione di un ciclo naturale eterno: sin dal titolo (che fa riferimento all’uovo fossile dell’era preistorica regalato alla donna dal suo innamorato), Öndög descrive un ambiente visivo sorprendente nella sua capacità di tagliare lo spazio con il tempo, per rinvenire una teoria esistenziale nell’apparente azzeramento della vita selvatica. Il film è venato da una libertà concettuale che lo rende permeabile alla dimensione arcaica delle relazioni, costruendo una parabola in cui i personaggi incarnano eventi che li trascendono: la morte, la vita, il sesso, il parto, i sentimenti stessi sono trovati da Wang Quan’an su una scena che osserva in lontananza ma che comprende nella sua struttura più intima e profonda. Il dialogo tra i campi lunghissimi e i dettagli, il silenzio d’ambiente e le voci della polizia alla radio, la notte e la luce, l’uomo e gli animali, il sesso e l’amore sono per il regista l’unica vera scrittura di un film sorprendente nella sua semplice e ben strutturata immediatezza.