Nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci (il 23 maggio) è passato in concorso al Festival di Cannes ed è contemporaneamente uscito in sala il film Il traditore di Marco Bellocchio, dedicato alla figura tanto articolata del “pentito” Tommaso Buscetta, detto Masino. E la scena dell’attentato, ormai a fine film, deflagra con violenza inattesa e feroce, ma più che mai efficace. Prima avevamo conosciuto la figura di Falcone, cui Buscetta racconta tutta la verità, non da pentito, non da infame, ma da uomo d’onore, che, dice, denuncia e disconosce Cosa Nostra nel momento in cui ha iniziato ad uccidere bambini, donne, giudici…nel momento in cui il traffico di droga ha preso il sopravvento e Totò Riina e la mafia corleonese hanno rinunciato ad ogni valore per il potere e la ricchezza. Gli crediamo, ma sappiamo al tempo stesso che non è vero. Tutto inizia negli anni Ottanta a Palermo, nuova capitale del traffico di stupefacenti. Buscetta decide di lasciare “gli affari” e tornare in Brasile con la terza moglie e i figli avuti da lei. Già un gesto di distanza dai metodi della nuova mafia, che, però, non esiste, dirà durante un interrogatorio. “È un’invenzione dei giornali”, perché quest’organizzazione criminale si chiama Cosa Nostra e una volta entrato non puoi più uscirne. Bellocchio ricostruisce i momenti salienti di una storia durata vent’anni e si sente forte l’idea che non sia finita. Siamo di fronte a fatti che ancora bruciano perché al centro ci sono eroi ed antieroi le cui parole si sentono ancora risuonare nell’aria.
E le parole qui hanno un valore che va oltre il loro significato. Nascondono segreti, misteri e doppi sensi, ma anche verità profonde come la stretta di mano che si scambiano proprio Buscetta e Falcone, dopo che il “boss dei due mondi” ha reso la sua testimonianza al maxiprocesso. Quel saluto viene dopo molte parole e le contiene tutte. Il traditore è un film fatto di molti segmenti, con piani temporali e ambientazioni abilmente mescolate, perché per ricostruire i fatti e il carattere di un tale personaggio si deve procedere per interpretazioni e suggestioni, soffermandosi su alcuni dettagli e sorvolando su altri. Così, ad esempio, resta nella memoria l’immagine del “pentito” che corre in bicicletta per i corridoi, nei momenti lasciati liberi dalla sua confessione. Oppure la lunga scena spezzata dell’omicidio di un affiliato, ordinatogli dal capo di allora. Passano anni prima che possa finalmente portarlo a termine, ma il momento finalmente arriva, perché la mafia sa aspettare, come ammette il protagonista. E così Il traditore sfiora l’epica del genere in una scintilla di rara precisione.
Buscetta è quasi sempre al centro dell’azione ed è una scelta sorretta dalla straordinaria interpretazione resa da Pierfrancesco Favino, che ha evidentemente studiato Buscetta nei materiali di repertorio di cui pure si serve Bellocchio. Solo così è stato possibile rendere la precisione dell’ambiguità che tutto il film, e la vicende che lo sottende, dichiarano fin dalla prima scena. La verità va interpretata, e Bellocchio sa bene come creare le condizioni per enunciare un tale surplus di realtà. Anziché la cronaca, sceglie l’estasi, direbbe Herzog, amplificando i fatti perché la verità appaia in tutta la sua complessità. E allora l’opera risuona e allarga i confini stessi dell’immagine, così come l’eco, che si sente durante tutto il maxiprocesso, ma anche il chiacchiericcio continuo, le voci provenire da più parti, il dire incomprensibile di Contorno (Luigi Lo Cascio) e il non dire, talvolta, di Buscetta. Ecco il senso di un film tanto complesso. La sua scommessa abbondantemente vinta sta nell’aver saputo fare dell’ambiguità la chiave di volta che sorregge tutto l’edificio di parole, sguardi, silenzi, gesti, manipolazioni.