C’è il corpo e c’è lo spirito: l’esordio di Laura Samani sta tutto nel confronto tra queste due dimensioni in cui inscrive la parabola di Agata e del suo compagno di viaggio Lince. Sono loro i protagonisti di Piccolo corpo (a Cannes 74 nella Semaine de la Critique), sorta di romanzo di formazione scritto nel tempo arcaico di due figure strappate all’Italia d’inizio 900. Un romanzo di formazione dettato dal tempo della morte: l’incipit è sospeso sulla ritualità sacra e pagana di una cerimonia acquatica destinata a benedire la gravidanza di Agata, ma quando la donna partorisce, la bimba nasce senza respiro e il suo mondo si incupisce. Il sacerdote nega il battesimo a quel piccolo corpo e Agata non accetta che la sua anima senza nome sia destinata a vagare in eterno nel limbo. Sarà che quello è un destino ben noto, inconsciamente, anche a lei, che pure un nome ce l’ha ma è nata donna su un’isoletta del nordest italiano e la sua vita non le è mai davvero appartenuta. E allora Agata mette in atto la sua rivolta silenziosa e, consigliata dai sussurri di un vecchio saggio, si carica in spalla la cassetta col piccolo corpo senza respiro che ha messo al mondo e parte per la terra ferma, verso quella montagna dove la tradizione vuole che sia possibile restituire per un attimo il respiro ai bimbi nati morti e dar loro un nome che permetta di entrare in paradiso. È su questo presupposto, sospeso simbolicamente tra la materialità di un corpo morto e la ricerca di un’identità che liberi lo spirito dalla sua prigionia, che Laura Samani costruisce il senso del suo film, spingendolo in un percorso avventuroso che riecheggia la tradizione romanzesca ma allo stesso tempo la trasfigura in uno scenario rurale e arcaico di prospettiva bassa, popolare.
Intreccio singolare di linee immaginarie che trova nella bella figura ibrida di Lince in suo punto focale: abbigliato come un reduce di una qualche guerra mai combattuta, questo ragazzo nasconde in realtà il corpo di una ragazza in fuga dalla sua condizione di sottomissione femminile. Avvicina Agata per interesse, un po’ avventuriero un po’ angelo custode, la affianca come compagno di viaggio e guida, dietro la promessa di avere metà del prezioso e per lui misterioso carico nascosto nella cassetta che la donna stringe a sé. Diventerà molto di più, perché Lince assumerà su di sé il senso più autentico di questo viaggio di formazione, la ricerca di una identità che dia un nome liquido al rigore di quel corpicino privo di vita e restituisca a lei la consapevolezza del suo essere una persona vivente e libera. Limpido e delicato, Piccolo corpo sembra in principio uno di quegli esordi che appaiono un po’ programmatici, vittime di un sistema cinematografico che struttura troppo le emozioni e le intuizioni dei giovani autori, ma poi riesce a tenere fede alla sensibilità (anche filmica) di Laura Samani, che appare netta e determinata. L’approccio concettuale e visivo tiene insieme il rigore della materia e la fluidità dello spirito, elaborando con sensibilità uno scenario sospeso tra acqua e terra, tra tempo storico e astrazione narrativa. I cromatismi stemperati garantiti dalla notevolissima fotografia di Mitja Licen contribuiscono non poco alla resa empatica del film, che si muove con coraggio su territori sia visivi che concettuali di confine.