Una preghiera all’arte del narrare: The French Dispatch di Wes Anderson

The French Dispatch è il supplemento domenicale del Liberty, Kansas Evening Sun, una rivista dalla storia gloriosa che è stata vissuta, pensata e plasmata dal suo fondatore, Arthur Howitzer Jr. Al French Dispatch lavorano i giornalisti migliori, i più creativi, geniali anche quando non scrivono. Il French Dispatch si occupa di tutto: di arte, di viaggi, di cucina, di società, di politica. Quando Howitzer muore la rivista chiude, abbassa la saracinesca al futuro perché abituata a vivere in un eterno presente. E proprio con il necrologio del suo direttore si apre l’ultimo numero del French Dispatch, quello a cui noi assistiamo, perché la scrittura più sopraffina si traduce in immagini, culla e dirige la nostra immaginazione. L’ultimo lavoro di Wes Anderson è proprio questo: un sommario di articoli che si trasforma davanti ai nostri occhi in un caleidoscopio di immagini, storie che si susseguono come in un indice per accompagnarci in un viaggio, visivo e sensoriale, all’interno di un monumento all’affabulazione. The French Dispatch  (a Cannes 74) è, certo, un omaggio al New Yorker, rivista-totem sulle cui pagine Anderson si è formato, ma più in generale è una preghiera all’arte del narrare, all’impercettibile legame tra parola scritta e immagine messa in scena, un inno alla libertà narrativa e alla sua imprevedibilità. La durata dei vari segmenti è variabile, proprio come gli articoli di una rivista, il tono ironico e colto, il ritmo vorticoso.

 

 

Un giro in bicicletta nei quartieri malfamati di Ennui-sur-Blasé (più o meno “Noia-su-Fiacca”) – la città immaginaria ricostruita ad Angoulème che rappresenta la Francia, anzi tutte le France presenti e passate, reali e immaginarie, ogni altrove sognato – si trasforma in un confronto ironico e surreale tra vecchie e nuove marginalità, una fantasia ironica di giornalismo di viaggio; la scoperta di un artista tra le mura di un manicomio criminale dà vita a un bizzarro resoconto di relazioni improvvide e loschi figuri che condizionano l’arte in nome della moda e del denaro; l’imprevedibile rapporto tra una giornalista impassibile e un giovane e focoso attivista dedito alla stesura di un manifesto rivoluzionario tracima in un omaggio affettuoso al Maggio Francese e al cinema della Nouvelle Vague; un reportage culinario sconfina, in un crescendo parossistico, in un noir di rapimenti e sparatorie, fughe e inseguimenti. Nulla è mai come sembra, il puro gusto per la narrazione scavalca e si impone sui recinti del racconto, la forma plasma il contenuto e lo reinventa continuamente, come in una perenne mutazione. Anderson riempie questo suo film all’inverosimile, lo rende un catalogo di passioni, amori, omaggi: al giornalismo che fu (in cui ogni visione intellettuale non si tramutava in egotismo masturbatorio ma suggestione da condividere); al cinema sempre diverso e sempre da digerire come un innamorato (c’è Tati e c’è il polar classico, ci sono Melville e Renoir, c’è una ragazza con casco che sembra uscita da La cinese di Godard, ci sono le comiche mute, c’è lo stupore mai domo di Méliès); al gioco avventuroso dell’animazione (una scena animata che sembra una variante del Tintin di Hergé); a un’idea internazionalista della condivisione del sapere e del piacere.

 

 

The French Dispatch è un gesto simbolico di un americano capace di guardare ciò che è altro da sé, il sussurro di un innamorato che – come il defunto direttore Howitzer – “ha portato il mondo in Kansas”. Anderson costruisce le sue storie – che non finiscono mai dove le aspettiamo, che parlano di altro rispetto a quel che promettono – attraverso un catalogo di stili, esasperando l’impostazione geometrica del suo cinema e aggiungendo senza parsimonia dimensioni estetiche e di senso. Le usuali coordinate ortogonali del suo cinema – la fissità delle inquadrature, i carrelli laterali, i plongée – esplodono in continui cambi di formato, accendono e spengono i colori, si lasciano andare a un flusso narrativo che scavalca ogni confine. Anderson ha portato il suo cinema stranito e estroverso al suo punto di non ritorno, ha messo in scacco la sua estetica elevandola a dogma ma infrangendola sull’altare della forza del racconto, ha scelto la potenza evocativa facendola esistere come fosse una necessità. La parola scritta che si fa immagine per eccellenza, quella parola che il severissimo Horowitz non ha mai la forza o il coraggio di tagliare. Gli articoli sono come viaggi – immagini in movimento, film – che vivono di vita propria, in un’estasi che è forza collettiva, come collettiva è la scrittura del suo necrologio che gli dedica la redazione: un ricordo affettuoso e ironico per chi, volendo lasciare a ogni costo spazio alle storie, acquista altra carta, aumenta le pagine, prolunga il sogno.