Tori e Lokita di Jean-Pierre e Luc Dardenne e la lotta per la sopravvivenza

Tori e Lokita sono arrivati in Belgio su un barcone, lasciando il Benin in cerca di un’idea di vita in più. Lei è una giovane donna che potrebbe diventare infermiera; lui è ancora un bambino, costretto a un’esistenza in stridente contrasto con la sua età. Tori e Lokita sono inseparabili ma la legge belga deve indagare: sono davvero fratello e sorella come dicono – a noi non importa, a loro non importa, alla giustizia asettica sì – oppure nascondono qualcosa? Ma quello che Tori e Lokita sono costretti a nascondere davvero è la loro quotidianità obbligata a fare i conti con la marginalità del crimine, con gli abusi diventati abitudine, con il traffico di droga espletato come una qualsiasi consegna in tempi di rider e di delivery, in cui la buona volontà è un’altra promessa inutile urlata contro il cielo. Tori e Lokita non vorrebbero mai separarsi ma è la vita a farlo per loro: loro che trovano una coesione armonica cantando una vecchia canzone italiana, che evitano panico e solitudine solo parlandosi per pochi minuti, che fanno tutto assieme e che sono costretti alla distanza. Jean-Pierre e Luc Dardenne tornano ai loro luoghi e alle loro emozioni per cercare nella contemporaneità le Rosetta di oggi, i nuovi padri e i nuovi figli, personaggi adatti a raccontare questi tempi bui. Come già Aki Kaurismaki in Miracolo a Le Havre – anche se con minor disincantata ironia e maggior disilluso realismo – i Dardenne colgono l’esemplare dei nostri tempi nei volti e nei corpi giovani, ma già piegati, dell’ultima ondata migratoria.

 

 

I Dardenne ragionano così, da sempre. Scelgono il cuore del loro racconto e non lo lasciano mai: i padri, i figli, le Lorna e gli Ahmed e – qui – Tori e Lokita. La storia, come detto, è esemplare e semplice: mette in scena una lotta per la sopravvivenza che impone attese e decisioni sbagliate; regala il tempo di un affetto facendolo pagare a caro prezzo; illude e poi colpisce; analizza la realtà con categorie forse abusate ma che non mancano mai di dimostrare la loro violenza sociale. I personaggi sono pochi – i due protagonisti, i rappresentanti dello Stato che sono ectoplasmi appena abbozzati, le facce criminali che coinvolgono Tori e Lokita nei loro traffici senza lasciare traccia, senza crearsi uno spessore morale, neanche al negativo – e le azioni sono ridotte al minimo: gesti quotidiani che diventano abitudine, abitudini che significano sopravvivenza, sopravvivenza che suggerisce futuro. Non c’è nulla di nuovo da aspettarsi dal cinema dei Dardenne. Le loro idee corrispondono a un preciso racconto del mondo che inseguono – con il prestigioso raccolto di due Palme d’Oro – e che si ostinano a mettere in scena senza tradirsi, senza la paura di una reiterazione di loro stessi.

 

 

Il meccanismo, oliato tra capolavori e inciampi, funziona quando la scelta del tema (e del cuore emotivo del discorso ideologico) si mostra capace di prendere vita e restituire un’empatia che, come in questo caso, sa concretizzarsi in un indice accusatorio capace di implicare responsabilità sociali e suggerire gerarchie di colpevolezza. Tori e Lokita è l’ennesimo capitolo di un percorso che mira al cuore dell’Europa, denunciandone l’inedia e il distacco, il cinismo e la violenza: un film a suo modo smaccatamente riconoscibile, facilmente prevedibile, addirittura ovvio nella sua evoluzione di apologo morale, nel suo voler essere una lezione importante dal punto di vista etico tanto da poter glissare su una certa prevedibilità. I Dardenne sono un canone, forse invecchiato nell’idea linguistica – quel pedinamento continuo che ha segnato il cinema d’autore degli ultimi vent’anni – ma che non sbianca davanti all’impegno di testimoniare una deriva morale collettiva, diffusa, indistinta. Almeno per questo – e non è poco – bisogna continuare, con onestà, a mostrare loro un profondo rispetto.