Cercando la visione: Nope, di Jordan Peele

Non scappa più Daniel Kaluuya, dagli “ultracorpi” che lo minacciavano in Get Out. Al contrario, la sua nuova collaborazione con Jordan Peele è nel segno del rimanere, del presidiare il ranch della famiglia, nucleo a sua volta non più da temere, ma retaggio da rispettare. Bastano queste poche considerazioni per rendersi conto come Nope, fin dal titolo iscritto nel segno della negazione, rappresenti un ribaltamento, lo specchio del cinema finora esplorato da Peele, che qui sembra quasi abbracciare il punto di vista degli “altri” di Noi. Un cinema che si guarda, quindi, e anche per questo riflette a sua volta sul percorso compiuto dagli albori dell’immagine in movimento al presente del digitale. In questa storia di invasioni aliene, il punto di vista è perciò l’elemento fondativo della neo mitologia western attraverso la quale OJ e Em Haywood, fratello e sorella e ultimi eredi di una genealogia che data sino al fantino del cavallo di Muybridge, devono affrontare “qualcosa” nascosto fra le nuvole e che rappresenta per questo l’ultima e impossibile immagine da filmare. Un “monstrum” da vedere senza essere visti, un po’ come quello scimpanzé impazzito in diretta tv e che rappresenta un altro dei rivoli della narrazione magmatica in cui Peele affonda convintamente le mani. Nope in questo senso è un racconto multiplo, che sta fra la semplicità tipicamente americana del gruppo ristretto di protagonisti “spielberghianamente” opposti al moloch per la salvezza del mondo; e, dall’altro versante, la complessità di una struttura narrativa in cui è facile perdersi, tra dialoghi pregni di un umorismo sfuggente, sottotrame apparentemente fuori contesto e significati di valore.

 

 

Il raggiungimento della visione assoluta è quindi sfida tanto semplice quanto complessa, e il viaggio per ottenerla è significativo: perché permette una ricognizione dalla sequenza di fotografie del pre-cinema alla moderna succedaneità tra pellicola e digitale. Ma anche perché serve a mettere le cose in ordine, a capire l’eccesso da eliminare per arrivare all’essenziale e ristabilire le verità giuste in un mondo che ha prediletto sempre una narrazione “altra” e unilaterale. Rimarcare come sul cavallo di Muybridge ci fosse un fantino nero non è dunque soltanto un vezzo militante, è ricollocare i pezzi di un immaginario che era sempre stato presentato in una forma parziale e limitativa rispetto alla complessità del mondo. È un gesto difficile perché intimamente politico, ma Peele lo sta compiendo con grande consapevolezza. Ecco perché, sebbene lo spirito di Nope sia affine ai grandi film di visione degli anni Sessanta/Settanta e primi Ottanta (i vari 2001: Odissea nello spazio, Brainstorm – Generazione elettronica, Stati di allucinazione), sempre tesi al superamento del limite di ciò che può essere rappresentato per andare al di là del tempo e dello spazio, qui Peele attua un ribaltamento. Cerca l’immagine che è oltre, ma senza costruirvi attorno un armamentario visivo barocco.

 

 

Al contrario, tutto è negazione dell’esplicito e (non) lo vediamo attraverso piccoli scarti, apparizioni lampo, immagini come raccolte solo con la coda dell’occhio. Un po’ – per tornare a Spielberg – come le apparizioni di Incontri ravvicinati del terzo tipo (altro riferimento imprescindibile) che non rivelano cosa accadrà “dopo” a Roy/Richard Dreyfuss In tutto questo, Peele spadroneggia da maestro la gestione puntuale ma non appariscente dei riferimenti (alcune scelte rimandano a anime come Akira o Neon Genesis Evangelion) e i registri di una storia fantascientifica a tratti appassionante come un western classico, a tratti disturbante come un horror. Perché poi, il ribaltamento più importante che Nope porta avanti è quello che permette a un’opera tanto ambiziosa di essere anche un grande divertissement d’autore. Complesso, ma semplice, appunto.