Corpi devastati e passioni folli nel cinema di Ripstein

La-calle-de-la-amargura-6-Alberto-Estrella-credit-Víctor-Mendiola“Preferisco l’invenzione ai fatti”. Lo dichiara Arturo Ripstein ed è una perfetta sintesi di tutta la sua sontuosa filmografia, avviata nel 1966 con il western Tiempo de morir. Cinema di tragedia e mélo, barocco e carnale, quello del regista messicano, di personaggi imprigionati nelle loro ossessioni, di corpi devastati da passioni folli, maltrattati, pesti e sanguinanti, che abitano i meandri di quartieri malconci dai quali, anche quando è immaginata, la fuga risulta impossibile. Ritroviamo intatta la poetica di questo autore (che fortunatamente non ha smesso di fare film, come era stato tentato di fare una decina di anni fa dopo il documentario Los héroes y el tiempo, ovvero il ritorno a un altro suo documentario, Le cumberri, girato nel carcere del titolo) in La calle de la amargura (La strada dell’amarezza, splendido titolo mélo), presentato fuori concorso. Ripstein lo ha girato in bianconero, grazie al quale il contrasto tra buio e luce, e il lavoro sulle ombre, risalta con una nitidezza ancora maggiore, e ha reso una strada e i suoi dintorni, il cortile di un palazzo fatiscente e le stanze di alcuni appartamenti colme di oggetti e povertà, il set di un film dove si respira intatto quel magma malsano che rende immediatamente riconoscibile il suo cinema di pura, esasperata finzione perché “la realtà è un’occorrenza passeggera, la verosimiglianza è, ai suoi massimi livelli, eterna”, afferma l’autore di El imperio de la fortuna e Principio y fin.

 

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la_calle_de_la_amargura2Prostitute non più giovani e sfatte, il marito di una di loro che ama indossare i vestiti di lei e incontrare ragazzi, l’anziana madre dell’altra portata in giro a mendicare su una carrozzina di legno, due nani che fanno da spalla in combattimenti-spettacolo in un’arena e che hanno il volto sempre coperto dalla maschera utilizzata sulla scena. Sono i personaggi principali di La calle de la amargura, verso i quali Ripstein (e la sceneggiatrice abituale, nonché sua moglie, Paz Alicia Garciadiego, ancora una volta superba nel creare disturbanti figure dell’emarginazione) pone il suo sguardo infinitamente tenero, amando quel popolo del sottosuolo per il quale è sempre “tempo di morire”. La morte è dichiarata, nella finzione dentro la finzione rappresentata dalle maschere, dai costumi e dai nomi d’arte dei lottatori, è resa esplicita, e pervade ogni istante sia dei personaggi sia degli anfratti da loro frequentati, già veri e propri angoli che sanno di putrefazione, di disfacimento. Ripstein, facendo un cinema classico nella forma, morbido nei movimenti di macchina, preciso nella costruzione degli ambienti, rende palpabile, odorabile questo senso di morte appiccicato ai materassi o, se va bene, ai letti, agli abiti sulla pelle delle donne e degli uomini, ai pavimenti e ai vicoli lucidi di rivoli d’acqua. In tal senso, il personaggio e il corpo dell’anziana – pressoché immobile e priva di conoscenza, maltrattata e amata dalla figlia (è sempre così nel cinema di Ripstein, ci si percuote e ci si accarezza senza tregua), che talvolta le copre il viso con un panno come fosse un sudario e poi l’abbandona distesa per terra, come un cadavere – è esemplare e, insieme agli altri che intrecciano le loro derive, va ad aggiungersi alla folta galleria di rifiutati costruita dal regista nel corso dei film.

 

la-calle-de-la-amargura-patricia-reyes-spc2a1ndola-juan-francisco-garduc2a6o-guillermo-lc2a6pez-credit-vc2a1ctor-mendiolaNon c’è verità più grande della finzione, dice Ripstein. Che per La calle de la amargura si è ispirato a un fatto realmente accaduto, ma senza dichiararlo nei titoli. Una scelta precisa, anch’essa rivelatrice della sua idea di cinema. Il fatto di cronaca dovrebbe essere quello dell’omicidio dei due nani compiuto dalle due prostitute. Un omicidio per sbaglio, perché avrebbero solo voluto addormentarli con delle gocce per derubarli nella stanza di una squallida pensione. A Ripstein interessa ri-creare, inventare luoghi di cinema. Emblematica, la scena nella quale filma il ring dei combattimenti vuoto, muove la macchina da presa attorno a esso. Si tratta, in ogni immagine, di riempire uno spazio, di abbellirlo di oggetti (con gli specchi indispensabili nella moltiplicazione delle profondità della visione) e corpi che sorgono dal nero e nel nero sprofondano.