Demodé contemporaneo: Bus 47, di Marcel Barrena

Siamo nel 1958 nella Spagna ancora franchista, Barcellona diventa meta di sfollati dall’Estremadura e da altre regioni della Spagna dove i franchisti hanno di fatto cacciato gli abitanti togliendo terre e possibilità di vita. Tra questi Manolo Vital e la sua famiglia, cioè la sua unica figlia Joana ancora quasi neonata e senza madre. Nella ancora disabitata zona di Torre Baró, sulle colline di Barcellona, un gruppo di sfollati comincia costruire abitazioni precarie. Come accadeva anche in Italia solo la costruzione del tetto impediva la sua demolizione. Manolo Vital dopo una ennesima demolizione propone che tutti si dedichino alla costruzione di una sola casa per notte. Torre Baró e la sua comunità prendono forma. Negli anni ’70 è ormai un quartiere, ma le autorità di Barcellona non sembra se ne rendano conto. Manolo Vital, sposato con Carmen, oggi lavora per l’azienda dei trasporti pubblici e guida il bus n. 47 che attraversa la città e questo lo convince nella sua determinazione che è quella di fare arrivare a Torre Baró un autobus, su quelle strade così ripide e in quel luogo sconosciuto agli stessi abitanti della grande città. I fatti sono reali come i personaggi, in un crescendo di verità e emozione. Due temi diventano centrali in Bus 47, film dall’aria del tutto demodé rispetto ai tempi che viviamo: la possibilità di praticare una piccola rivoluzione collettiva e la faccia del potere che non muta al mutare delle latitudini e dei tempi. In verità sono due verità che conosciamo, ma talvolta – di questi tempi – non fa male ripeterlo.

 

 
È sotto l’egida di queste due acclarate verità che il film va letto e in questi due assiomi va anche valutata la sua portata politica che indubbiamente costituisce, sebbene in misura meno evidente che nella filmografia di Ken Loach, tanto per avere un termine di paragone, una qualità decisiva del film, che non per nulla comincia la sua narrazione dall’epoca franchista a porre steccati tra la dittatura e la democrazia, ma, per brevi tratti in un finale in crescendo, anche tra speranze e delusioni del nuovo assetto democratico. Nonostante tutto questo Bus 47 non vuole essere un film pienamente politico. L’aria che si respira, tutto sommato mai del tutto arrabbiata, ne impedisce una lettura diretta unicamente verso questa direzione, se per politica intendiamo quella intransigenza verso il potere, l’atto che spezza i rapporti, la condizione di scontro costante tra le parti. Manolo Vital, l’insurrezionalista comunista dell’Estremadura prova a diventare il trait d’union tra il potere, il Municipio di Barcellona e la sua gente di Torre Baró ed è fermo nel condannare l’atto di violenza sui mezzi che sindacalisti estremisti hanno compiuto per rivendicare i loro diritti. Ma il finale stravolge ogni mediazione e il gesto non tanto simbolico quanto eclatante rompe l’equilibrio del compromesso, della possibile mediazione, rompe l’attesa (vana) degli abitanti, trasformando il gesto solitario in partecipazione di massa, che diventa scoperta di luoghi ed immediata empatia per i cittadini da ZTL, diremmo oggi. Qui si inserisce il secondo dato, quella faccia del potere che non muta e Manolo se ne accorge quando il funzionario democratico lo irride e la sua lotta agli occhi del giovane politico rampante diventa un passatempo e non il senso di una intima e collettiva volontà.

 

 
Il politico democratico ignora la storia di Manolo e Torre Baró non è nei suoi piani. Non è molto diverso da quanto accadeva prima e in un brivido il film sa sintetizzare il senso di sgomento davanti a questa verità che scopre il vero volto di chi siede sulle poltrone del comando.
Bus 47 con la sua aria demodé – come si diceva accentuata dagli inserti di filmati d’epoca per le vie della città, immagini che bene si integrano con la fotografia del film virata al punto giusto per restituire i colori e il senso complessivo dei tempi – sa farsi racconto collettivo, di una comunità che non sempre trova una sua compattezza, ma che trova il ritmo, nonostante i guai, di un respiro unico, di un sentire che vuole riscattare ogni nuova emarginazione dopo quella drammatica ad opera delle forze franchiste.

 

 
In un più ampio disegno Bus 47 sembra riesumare certo cinema di impegno civile assai in voga in Italia – tra l’altro il tema della costruzione del tetto come atto finale e salvifico per la casa è lo stesso de Il tetto di Vittorio De Sica – negli anni ’50 e a seguire. Di tutto quel cinema che sull’onda di una nuova e feconda onda di studiosi della città, urbanisti, architetti e politici, ridisegnava i confini di ogni città, dalla metropoli a quelle più ridimensionate, per includervi le periferie non solo come effetto a cascata di una politica che rinnovava il proprio modo di guardare ai temi di un egalitarismo sincero, ma come effettiva necessità per sedare ogni tentativo di rivolta. È stata la rivolta, come strumento politico a segnare l’insofferenza delle nostre periferie e i francesi ne sanno ancora più di noi e il loro cinema lo ha raccontato con dovizia di particolari. Bus 47 si inserisce in questa ottica, come un reperto del passato, come un’altra rivolta che ha avuto effetto, come un pezzo di storia che era giusto raccontare per ricordare che anche Torre Baró è Barcellona.